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Iliham [Indole umana] PG ESILIATO

Ultimo Aggiornamento: 29/06/2013 14:16
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Post: 179
Città: BARI
Età: 37
Sesso: Femminile
31/05/2013 14:57

Bg

Provenienza: Irlanda
Allineamento: Caotico Neutrale
Descrizione Fisica: Sono trascorsi 24 anni dal giorno della sua nascita e tutti gli inverni vissuti fin'ora sembrano aver plasmato perfettamente le forme definite di questo giovane uomo del Nord. Di un biondo tanto chiaro da divenire bianco in direzione delle punte, i suoi capelli rappresentano il retaggio più caratteristico dei clan barbari delle montagne dell'Ulster. Un paio di occhi di ghiaccio - di quello più puro, senza sfumature sulla sua superficie - adorna un volto d'alabastro dai tratti marcati e mascolini che ogni tanto si ricopre di un leggero velo di barba, di una tonalità più scura rispetto al colore dei suoi capelli. Grazie al suo metro e ottantotto di altezza e alla sua massa muscolare particolarmente sviluppata e massiccia si è guadagnato più di un appellativo nel corso della sua vita. Da colosso a montagna, da gigante a angelo del nord. Due sono le particolarità che appartengono al suo corpo. La prima è visibile, una fossetta profonda che spunta di continuo sulla sua guancia destra tutte le volte in cui sorride pienamente, mentre la seconda no. Si tratta di una cicatrice che gli è stata impressa con la punta di una lama all'altezza dell'addome e che richiama visibilmente un simbolo nordico: Gungnir, la lancia di Odino(http://www.kotowari.org/wp-content/uploads/2008/02/gungnir2.thumbnail.jpg).
Parentele: Iliham è imparentato con suo fratello Finian.
Note particolari: Conosce e parla perfettamente il Gaelico Irlandese oltre alla lingua comune. Il pg è mancino.



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An Deireadh - La Fine



La camera del vecchio Ray era eccessivamente piccola per uno della sua corporatura, ma non abbastanza per lo stesso proprietario. Non la ricordava così minuscola..forse solo perché l’ultima volta che ci aveva messo piede era ancora un fuscello di ragazzino e proprio per questo quelle quattro mura apparivano molto meno soffocanti di adesso. Quella stanza sembrava suggerirgli l’impressione di essersi ristretta con gli anni, avviluppata in se stessa proprio come era accaduto per il corpo raggrinzito dell’uomo steso malamente su di un letto, avvolto sotto l’abbraccio delle pesanti coperte di lana grezza come una larva..l’unica differenza era che per lui il processo stava per avvenire nel verso contrario. Non si preparava a tirar fuori le ali ma piuttosto a richiuderle. A quel pensiero rabbrividì sotto il pastrano in tela marrone che ormai riusciva a contenere a stento le sue forme. Lanciò un’occhiata in direzione del giaciglio, di sbieco, come se volesse reprimere la volontà di guardare oltre il suo naso ma al contempo sentisse la necessità di farlo. Ciò che quello sguardo incerto gli rimandò indietro non fu affatto rincuorante. Il vecchio Ray se ne stava ancora lì, steso nella sua impassibile staticità, quasi del tutto immobile se non per il lento innalzamento di una parte delle coperte che doveva corrispondere al suo petto stanco, pronto a sgonfiarsi d’aria l’istante successivo..per quanto ancora durerà, si ritrovò a pensare, diviso dal tormentato desiderio di poter mettere a tacere lo strazio e la pena del vecchio e al contempo dalla speranza di poterlo avere al suo fianco ancora per un po. Si trattava di un pensiero egoistico, ne era consapevole, perché voleva dire prolungare oltre ogni sopportazione le pene di quel pover uomo , ma non poteva fare a meno di agognare altri stralci della sua vita. Non si sentiva abbastanza pronto per lasciarlo andare. Non ancora..ma sapeva anche che la decisione non spettava ne a lui ne tantomeno a Ray.

«Mi dispiace..» biascicò a labbra strette..e ciò che quel mormorio suscitò fu inaspettato per entrambi. Un colpo di tosse arrochito scosse il corpo dell’anziano mentore che improvvisamente trovò la forza di riaprire gli occhi e di voltare il capo alla ricerca di un altro paio di iridi piuttosto note per lui. Lo erano certo, ma non così, non quando si riempivano di lacrime in quel modo.
«Avevo perso le speranze ormai.. » borbottò Ray da sotto le coperte.
«Riguardo cosa?» domandò l’altro avvicinandosi al capezzale dell’uomo. Sembrava sovrappensiero..o almeno questo era ciò che il suo tono di voce suggeriva, ma aveva colto perfettamente il riferimento alle lacrime che proprio in quel momento gli gonfiarono gli occhi.
«Riguardo la tua capacità di riuscire a farlo ancora..l’ultima volta che è accaduto avevi raggiunto a malapena l’altezza delle mie spalle.» al termine di quelle parole un angolo delle sue labbra crespe s’incurvò. In qualche modo Lui sapeva che si trattava dell’ultimo sorriso che avrebbe ricevuto da Ray.
«Non andartene..» supplicò, stringendo un lembo delle coperte fra i pugni.
«Smettila di lamentarti come una femminuccia..non mi sembra di averti mai insegnato a farlo durante tutti questi anni» rimbrottò duramente il vecchio.
«Mi sembrava di averti sentito dire che un uomo che piange non dimostra affatto debolezza, ma una forza in misura maggiore rispetto a coloro che invece fingono indifferenza, una volta» accusò Lui, rincarando la dose. E’ assurdo, pensò..riuscì a trovare il coraggio di contrastarlo anche in quel momento. Ma Ray sapeva che dietro la rabbia del giovane si celava ben altro. Amarezza, angoscia, malinconia del tempo passato e tanta, tanta impotenza, perché erano le stesse sensazioni che un tempo provava anche lui. Adesso invece avvertiva solo la leggerezza dell’accettazione.
«E infatti non mi riferivo alle tue lacrime..» il vecchio sospirò profondamente prima di riprendere a parlare.
«Devi fartene una ragione Iliham..dobbiamo morire tutti prima o poi e lo sai bene anche tu» stavolta la voce del mentore si sfumò di una nota di dolcezza. Ma quando la parola “morire” arrivò alle orecchie del giovane ogni difesa si sgretolò come un castello di sabbia. Affondò con pesantezza il volto fra le mani e quel gesto testimoniò la sua resa. Era un nemico impossibile da sconfiggere persino per lui.
«Sotto le assi dell’armadio..» borbottò Ray prima che l’ennesimo colpo di tosse lo investì.
«Cosa?» domandò con perplessità il giovane prima di dirigersi verso il grande guardaroba che occupava quasi completamente una parete della stanza. Cominciò a fare pressione sul legno che costituiva la base interna del mobile e dopo qualche istante riuscì a ricavare una piccola fessura al di sotto delle assi. Infilò rapidamente una mano all’interno dell’apertura e quando sotto le dita avvertì la consistenza di un qualcosa di rigido la affondò ancora di più. Dalla fenditura estrasse quello che rapidamente riconobbe come un piccolo diario leggermente consumato dai segni del tempo. Si rigirò l’oggetto fra le mani con aria confusa..ma non fece neanche in tempo a sfogliare la prima pagina che un sospiro dall’altra parte della stanza decretò la fine di Ray. La fine di tutto.
«NO!!! No..» implorò con voce soffocata. «Ti prego.. » ma a niente servirono le sue grida sommesse o i suoi tentativi di rianimare il corpo del mentore, di scuoterlo con violenza..ben presto si ritrovò a stringere un peso morto fra le braccia, come se stesse cullando il ramo rinsecchito di un vecchio albero anziché un uomo.
Per un’ora o forse anche più la camera del vecchio si riempì dell’eco assordante di un urlo. Credeva di aver conosciuto abbastanza il significato della parola dolore ma a quanto pare si sbagliava. Il male di un uomo non aveva confini.
L’urlo s’arrestò in una sequenza sconnessa di respiri irregolari quando tutte le lacrime del giovane si prosciugarono e nel suo corpo non rimase nemmeno più un briciolo di forza. La morte si era appena portata via tutto, perfino la pesantezza della disperazione. Tornò con lo sguardo offuscato dal pianto sul minuscolo oggetto che stringeva a stento fra le dita tremanti.
Tutte le sue certezze si erano appena dissolte come neve al sole. Tutte tranne una...fra le pagine di quel vecchio diario si rintanava la verità. La Sua Verità.


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An Diallan – Il Diario



16 di Beth

} Luna Piena. Sapevo che saresti stato speciale in qualche modo. Non poteva essere altrimenti. Sei stato pensato, concepito, messo al mondo per esserlo. So già che mi odierai per questo. So già che mi odierai per tantissime altre cose. Mi odierai senza nemmeno conoscermi e odierai anche solo il pensiero di me proprio perché questa possibilità non ti è stata concessa. Che madre cattiva, penserai. Che donna crudele, ti ritroverai a credere nel tentativo di dimenticarmi. Di dimenticare cosa? Un’idea? Un’immagine sfocata? Un ricordo vago? Io ti rimembrerò a malapena, con tutta la coscienza che i miei anni esigono. Come potrei pretendere che tu, cucciolo d’uomo, possa ricordare me o i miei occhi? Ma anche tu lo sei stato. Crudele. Ci hai messo delle ore a venir fuori. Una notte intera per darti alla luce. Una vita intera per generarti. Scalciavi con la forza di un guerriero già dai primi mesi, forse consapevole del fatto che, in questo modo, avresti reso fiero di te tuo padre, senza nemmeno sapere di averlo un padre. E poi ti sei scavato con la forza una fessura dentro di me. Mi hai lacerata. Mi hai fatto del male. Quanto dolore, suppliche, sudore, pianti, imprecazioni ho liberato sotto la luce splendente della luna. Per un istante ho creduto di odiarti. Avrei voluto ricacciarti nello stesso punto indefinito dell’inesistenza dal quale eri giunto. Prima di vedere i tuoi occhi. Ecco, è proprio questo il momento in cui una madre comincia ad amare davvero suo figlio, pensai. Proprio nell’istante in cui si rende conto di quanto sia reale, perché prima di allora rappresentavi solo un’ideale dentro di me. Avrà gli occhi di suo padre? I suoi capelli? Il suo coraggio? La sua tenacia? La sua temerarietà? Mi domandavo ogni sera, prima di coricarmi a letto, con te che mi facevi compagnia dal mio ventre gonfio, allungando i piedini e deformando la pelle della mia pancia con le tue dita minuscole. E avrà anche la sua freddezza? Il gelo del suo sguardo vitreo? La sua incapacità di provare pietà per un uomo? La sua furia? La sua bramosia? Mi tormentavo volutamente nel silenzio dei miei quesiti irrisolti. E avrà la sua rabbia sfrenata? I suoi tratti marcati? La sua assenza di autocontrollo? Il suo fascino irresistibile? La sua violenza? La sua bellezza? Il suo ardore in battaglia? La sua adrenalina dinanzi alla vista del sangue versato? Perché è per questo che eri stato pensato, concepito, generato. E’ a questo che saresti andato incontro. Ma poi incrociai il tuo sguardo. Erano i miei stessi occhi, talmente identici da dare l’impressione che, con qualche arcana magia, me ne avessi strappato con violenza una parte, solo per ricreare l’autenticità delle mie iridi color del ghiaccio. Di quello più puro, senza sfumature sulla sua superficie. I capelli invece erano prepotentemente differenti dai miei. Il mio volto era incorniciato da una fluente chioma corvina, del colore della notte più cupa, pari all’onice, talmente liscia da ricordare l’essenza del cristallo nero. Dalla tua testolina invece fiorivano ciocche di un biondo tanto chiaro da apparire bianco in certi punti, un crine di seta rilucente. Erano i suoi capelli, i capelli di tuo padre. Ma gli occhi erano i miei e tanto bastava. Provai una gioia incontenibile nel constatare che, con la stessa arcana magia della quale ti eri servito per rapire il colore dei capelli di tuo padre, avevi rubato anche una parte di me. Perlomeno sapevo che, in qualunque parte del mondo ti saresti ritrovato, qualunque cosa fosse accaduta al mio corpo o alla mia anima, uno scorcio di me sarebbe sempre esistito attraverso di te. Quegli occhi erano la prova concreta di quanto mi appartenessi. E poi c’era la tua pelle, candida e opalescente come se qualcuno vi avesse versato una manciata di neve sopra. Forse il merito era da attribuire tutto alla luna...

Luna Nuova. Non potevo permettere che accadesse tutto questo. Tu potrai anche odiarmi in eterno. Anzi, sono del tutto certa che mi odierai. E avrai tutto il diritto di essere arrabbiato con me un giorno. Ma io non potevo permettere che diventassi come lui. Che ti riducessi ad essere un automa come tutti gli altri, che ti mettessero un’arma fra le mani prima ancora di divenire abbastanza grande per sostenerne il peso. Io non potevo permettergli di scrivere il destino che ti apparteneva al posto tuo. Credevo di essere pronta ad accettarlo. Mi avevano preparato a tutto questo già da quando ero piccola. Le compagne dei Talakheen sono solo degli strumenti, involucri, dicevano, per contenere quelli che un giorno diverranno i futuri guerrieri del villaggio. Il figlio che un giorno darai alla luce non sarà mai Tuo, mi convincevano, ma dell’intera popolazione. Che tu sarai o meno il suo guscio non farà alcuna differenza, non avrai nessun diritto sul bambino. I futuri Talakheen appartengono agli uomini. Per le donne la questione era del tutto diversa, ed il fatto che tu fossi il figlio del capoclan non mi offriva sconti di alcuna sorta. Per questo non potevo permetterglielo, capisci? Non una seconda volta. Non potevo permettere che anche tu facessi la stessa fine di tuo fratello. Ti avrebbero strappato il cuore dal petto davanti ai miei occhi se solo non fossi cresciuto all’altezza delle loro aspettative. Ho visto tante di quelle madri disperarsi di fronte ai corpi privi di vita dei loro figli, di nascosto, lontano dallo sguardo dei guerrieri. Forse lo sto facendo solo per preservare me stessa, anche se in fondo, il saperti lontano da me non attutisce ne il senso di colpa ne tantomeno il tormento. Ma ti concederà la libertà. Quella che io non ho mai posseduto ma sempre desiderato. Non volevo che divenissi come me, come tutti gli altri, come tuo fratello, il Diavolo vivente..Meritavi qualcosa di diverso, qualcosa di migliore. Perciò odiami pure se vuoi, ma almeno fai un piccolo sforzo per comprendermi. Per comprendere le motivazioni che mi porteranno a tenerti lontano da questo villaggio, da questa vita, da me. Accadrà questa stessa notte. Il giorno in cui sei nato corrisponderà anche al giorno in cui diverrai un uomo libero. Nel caso in cui ti avessi tenuto con me, il tuo nome sarebbe stato Fuar, Freddo, come la notte in cui sei venuto al mondo, il nome che ho comunicato anche agli altri prima di darti alla luce. Ma dal momento che tra poche ore non potrò avere più nessun diritto su di te, è giusto che coloro con i quali andrai a vivere ti facciano dono dell’identità che più preferiscono. Ti lascerò vicino al sentiero principale di Dubh Coill, ai margini della foresta. Ho già preso accordi con una delle famiglie più benestanti e benvolute della città oltre il grande fiume. La femmina di quella coppia è sterile ed entrambi desiderano un bambino da anni. Malgrado tutto sarai sempre e comunque il mio piccolo Angelo… Lascerò questo diario fra le coperte che ti proteggeranno, in memoria dell’attimo in cui hai cominciato a vivere. In memoria di quello che sarebbe potuto accadere e di quello che invece non accadrà. Mai. In memoria di tuo padre, E’amann. In memoria di tuo fratello, Ualtar. In memoria di me. {
Namiria


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An Sclábhaí – Lo Schiavo



Il bambino fu affidato ad una comunità di schiavisti. Figlio di un barbaro e di una donna che commise l’errore di amare troppo, abbandonato ancora in fasce in una notte di gelido inverno accanto al corpo privo di vita di sua madre, trovato accidentalmente da una famiglia di ladri che si sbarazzò di lui in cambio di un mulo che poi si scoprì vecchio, il neonato dal marchio rosso crebbe, nei suoi primi anni di vita, sotto le cure di una donna, una delle tante schiave di Marbh Khaleen, capo supremo della comunità. Il suo corpo particolarmente fertile aveva già dato alla vita altri figli in passato perciò il nuovo ‘acquisto’, come veniva definito dagli altri, fu destinato a lei. Balia di giorno e compagna di Marbh di notte, si occupò del nutrimento del piccolo orfano e di tutto ciò di cui un neonato necessita. Non vi era particolare attenzione nelle cure che prestava al bambino visto che per lei uno valeva l’altro, anche se vi erano momenti in cui, incantata dal colore cristallino dei suoi occhi splendenti e sottili, donava a quello sfortunato cucciolo d’uomo un sorriso. Non affettuoso, non gentile o dolce. Si trattava bensì di un sorriso pieno di commiserazione e pena. Laila sapeva che quel bambino non avrebbe mai avuto un futuro duraturo all’interno di una comunità di schiavi, né il calore di una famiglia tutta sua. Una volta entrati a far parte della Cerchia, infatti, il passato non contava più. Tutti perdevano la loro umanità, costretti ad un’esistenza priva di radici o fondamenta. Erano tutti identici, vestiti di stracci e della stessa espressione di vuoto e assenza che li caratterizzava. Donne, uomini, vecchi o bambini. Non vi era alcuna distinzione. Se riuscivano a dimostrarsi utili per le mansioni più disparate guadagnavano il diritto alla sopravvivenza e di un misero pasto al giorno, nel caso contrario perivano, di fame, di stenti, di ferite sanguinanti mai guarite o della malattia peggiore che un essere umano potrebbe mai contrarre, la solitudine.

Vi era una vecchia tra gli schiavi. Il suo nome era Sherazar. Nella Cerchia aveva il ruolo di Bean Feasa, chiaroveggente nella lingua comune. Non vi era uomo, donna o bambino che non avesse ricevuto l’ordine da parte di Marbh di rispettarla. A nessuno era concesso il diritto di toccarla o di farle del male. Marbh non aveva cuore. Era un guerriero, alcuni dicevano che fosse anche lui, proprio come l’orfano dai capelli biondi, figlio dei barbari dell’Eire. Era un assassino privo di onore ma credeva molto nel Dio delle Tenebre al quale si votavano tutte le Bean Feasa. Forse anche troppo...
La tradizione delle chiaroveggenti era stata tramandata da generazioni nella Cerchia visto che il Dono, come lo definivano loro, era annidato nel loro sangue e che quindi veniva trasmesso da madre in figlia. Nessun maschio veniva considerato al pari di loro dal momento che non ereditava, differentemente dalle femmine, i poteri della Bean Feasa che lo aveva generato.
Gli schiavi dicevano che Sherazar solcava la terra da più di duecento anni. Ma gli schiavi dicevano tante cose e non sempre corrispondevano a verità. Aveva origini diverse da quelle di tutti gli altri. La sua pelle era scura e raggrinzita, i suoi capelli grigi e le sue gambe storte come alberi deformati dalla forza del tempo…tuttavia possedeva abilità peculiari. In molti la definivano, lontano dalle orecchie di Marbh, come una Megera, per la sua capacità di ingannare gente di ogni sorta con qualche carta, fumo o luce soffusa. La sera era solita riunire molta gente attorno ad un fuoco. Era capace di parlare dal crepuscolo all’alba senza mai interrompersi e di incantarli tutti. Narrava spesso storie di eroi, ma anche favole e leggende di demoni e spiriti quando la notte si faceva più cupa. Diceva di avvertirli sulla sua stessa pelle, diceva di esser contesa da loro e ogni singola volta, con quelle semplici parole, riusciva a donare un brivido di terrore al suo piccolo pubblico. Laila amava ascoltarla, anche per lunghe ore, prima di addormentarsi, ma vi era una storia, fra le tante, che le piaceva in particolar modo…parlava di una creatura alata e rivestita di luce giunta dal cielo per liberare una donna divorata dal fuoco delle fiamme infernali…

Avrebbe dovuto distruggere il diario trovato tra le coperte che ricoprivano il corpo alabastrino del piccolo ma fece l’esatto contrario, decidendo di custodirlo gelosamente sotto gli spessi centimetri di lana e paglia del suo giaciglio, all’insaputa di chiunque, di Marbh e perfino dell’orfano che negli anni seguenti non si rese mai conto di quel minuscolo libricino che di volta in volta cullava i suoi sogni. Il bambino che Laila crebbe possedeva già un nome, Fuar, ma lei, leggendo quelle pagine, decise che per un uomo nuovo serviva un nome nuovo e fu allora che lo ribattezzò Iliham, lo stesso nome dell’angelo alato dei racconti di Sherazar. Un piccolo angelo in miniatura dai capelli biondi come il grano e dagli occhi chiari come il cristallo più puro.
Laila si era ripromessa di non legarsi a nessuno di loro ma quel bambino…quel bambino era speciale.

«E’ un Leathfear!» sibilò la vecchia Sherazar sul punto di morte, in una notte di Luna piena punteggiata da poche e sparute stelle, sputacchiando fra una parola e l’altra grumi di saliva e sangue. Per tutta la durata della sua lunga agonia mantenne gli occhi –di un bianco lattiginoso nel quale non era previsto alcuno spazio fra la pupilla e l’iride ma solo un’immensa vastità vuota con la quale il suo sguardo si stendeva su tutto e nulla – sgranati in direzione di Iliham, indovinando la posizione del bambino tra la folla nonostante la cecità con la quale aveva convissuto da tutta la vita. Lui la osservava da lontano con uno sguardo apparentemente spento, ma vi era una certa animosità nel modo in cui strinse i suoi piccoli pugni contro i fianchi...
Poi, improvvisamente, tra un verso sofferto e l’altro, la voce della vecchia divenne gelida e composta, ogni tremore abbandonò il suo corpo ed una nenia meccanica s’innalzò dalla sua bocca, risvegliando la ragnatela di rughe cresciuta attorno alle labbra.
«Fuar, secondogenito del grande e temibile E’amann, Dùn dar Talakheen, fratello del Diavolo e figlio dei Barbari dell’Eire, il tuo destino è scritto nei sogni. Sangue del tuo sangue tra le fauci. Brace e ghiaccio negli occhi. Artigli di luna. Nemico del fuoco e del sole. Segui le impronte dei Lupi. La grande Gealach saprà indicarti la strada. Segui i Lupi. I Lupi. »
A seguire quelle parole nella cella che la ospitava calò un profondo silenzio, oltraggiato solo dai respiri soffocati e rochi della vecchia che, qualche ora dopo, perì nel bel mezzo di un delirio che parve del tutto incosciente. Nessuno fece troppo caso alle parole smorzate che cantilenò fino alla fine «Occhi di brace. Sangue tra le fauci. Lupi..lupi » nessuno eccetto Iliham…e Marbh, il quale, con il passare del tempo, cominciò a provare un’ingiustificata gelosia nei confronti di quel bambino che, contrariamente a quanto credevano tutti gli altri, riuscì a superare perfettamente la soglia dei sei anni d’età. Fragile come un ramoscello ma agile come un piccolo scoiattolo, Iliham saltellava fra i cunicoli della Fossa – un’enorme costruzione che si estendeva per metri e metri sotto terra, ricca di corridoi di pietra illuminati a stento dalla luce di qualche torcia e di una quantità spropositata di diamanti incastonati e protetti da pareti irregolari e rocciose – senza sosta, contribuendo diligentemente al lavoro a cui erano obbligati dall’alba al tramonto. I bambini all’interno di quella comunità avevano un solo e semplice scopo: il loro compito consisteva, infatti, nel trasportare a mano i diamanti estratti dai colpi di picche degli adulti e di introdursi nelle gallerie più strette ed inaccessibili per lavorare e scavare nella roccia laddove alcun uomo sarebbe potuto giungere. Numerose erano le morti di quei ragazzini, principalmente dovute a frane improvvise o al soffocamento visto che l’aria là sotto era a dir poco irrespirabile.
Il figlio dei Barbari, differentemente dagli altri, non riuscì a stringere alcun legame con i suoi coetanei e tantomeno con i grandi, che dal giorno della morte di Sherazar lo adocchiarono con un misto di disgusto e sospetto, e non perché non lo volesse, ma perché la sua incapacità comunicativa non gli consentiva mai di allacciar alcun rapporto con nessuno; Iliham, o il fratello del Demonio, come continuavano a bisbigliare in molti, non aveva mai parlato, nemmeno una volta da quando si trovava lì, tanto che la maggior parte degli schiavi lo additava come muto, attribuendo a quella mancanza di linguaggio verbale una disfunzione genetica posseduta fin dalla nascita. L’unica che riusciva a provare una qualche forma d’affetto nei riguardi di quel ragazzino biondo era Laila, la donna dai capelli rossi come il fuoco e gli occhi verdi come l’acquamarina che l’aveva cresciuto e tirato su fino a quel momento e che quasi ogni notte, nel bel mezzo di incubi spaventosi, quelli che avevano cominciato a tormentarlo dal momento in cui Sherazar perì, asciugava la sua fronte con un panno bagnato e sussurrava al suo orecchio storie di terre lontane nelle quali nessun uomo era costretto in catene e la popolazione viveva pacificamente, lande nelle quali il diritto alla libertà che è nella natura di ciascun essere umano veniva rispettato. Un luogo lontano anni luce da lì…o almeno, questo era ciò che il figlio dei barbari immaginava…

Fu Laila a salvargli la vita. In realtà l’aveva già fatto attaccandolo al seno ma quello il bambino non poteva ricordarlo. Quella volta invece non l’avrebbe dimenticata mai.
Sembrava un giorno come tanti altri, scandito dalla ripetizione indifferente di azioni e gesti che in se recavano il gusto insipido della monotonia. Come ogni mattina il bambino si alzò al suono fastidioso della frusta che la guardia che controllava quel lato della prigione faceva schioccare violentemente contro le grate delle loro celle. Come sempre, dopo aver sbocconcellato un frutto – o ciò che i vermi avevano lasciato intatto dello stesso – si recò presso il luogo in cui solitamente tutti i bambini venivano radunati così che ad ognuno di loro poteva esser dato un compito e indicato precisamente il punto in cui dovevano spingersi, fra i cunicoli della Fossa. Quel giorno a Iliham toccò la Freccia, il settore della prigione denominato in tal modo dagli schiavi per la sua forma assottigliata e dritta che ricordava le fattezze di un dardo. Lì, perlomeno, il rischio di perdersi era inverosimilmente ridotto. Portò a termine il suo lavoro in silenzio, come ogni singola volta, senza prestare troppa attenzione agli uomini e ai bambini che di tanto in tanto gli sfilavano alle spalle, diretti nella direzione opposta alla sua. Nel tardo pomeriggio, di ritorno dalla Freccia, stanco e assetato, raggiunse la mensa, o almeno tentò di farlo prima che un qualcosa di duro e ruvido andò a schiantarsi direttamente sulla sua faccia, provocandogli un dolore acuto all’altezza della guancia sinistra. Non si concesse nemmeno il tempo di domandarsi alcunché perché, più per istinto che per reale esperienza, in quell’istante era troppo impegnato nel tentativo di sfuggire al secondo colpo che già mirava a colpirgli la gota opposta. Lo mancò per un soffio e fu solo per il fatto che il suo corpo era minuto e scattante, differentemente da quello dell’uomo che lo sovrastava e che già si preparava ad infierire di nuovo su di lui, che ci riuscì. In risposta ad un impulso affrettato si precipitò verso l’altro, approfittando del colpo con il quale quello tentò di investirlo –approfittando di uno dei fianchi altrui scoperti - per attaccarsi con furia al suo polso e addentarlo con una forza dannatamente brutale. Voleva arrecargli lo stesso dolore che aveva appena subito. Voleva farlo sanguinare e ci riuscì. Ma in tal modo riuscì anche a commettere il più grosso sbaglio di quella giornata. Infatti, dopo pochissimi istanti, due mani lo afferrarono con forza da dietro, obbligandolo a tenere le braccia incrociate dietro la schiena. Si dimenò e scalciò come un animale in trappola, agitando le gambe all’aria senza che in nessuno di quei calci vi fosse una direzione da intraprendere o un bersaglio da colpire. Voleva solo liberarsi e tornare a caricare l’altro come un piccolo toro imbestialito. Ma l’altro in questione era l’unico bersaglio che non avrebbe dovuto prender di mira. Era Marbh Khaleen, il capo degli schiavi in persona. Iliham non aveva mai avuto modo di scorgere la sua faccia da vicino come in quel momento...e forse sarebbe stato meglio tenersi il dubbio alimentato dal mistero che aleggiava di continuo attorno a quella figura perché quel volto non aveva niente di umano.
Se il demonio aveva davvero una faccia, di sicuro era la sua.

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An Fiàin – Il Barbaro



Due occhi neri come pece ricambiarono il suo sguardo pericolosamente meravigliato. Sapeva che la decisione di fissarlo in tal modo era la più stupida che potesse prendere ma non poteva farne a meno. Una cascata di capelli di un biondo acceso e sgargiante fluttuava, stretta nella morsa di quattro trecce spesse, compatte come fruste e lunghe al punto da superare l’altezza delle sue natiche, al di là di un paio di spalle incredibilmente massicce e larghe, in gran parte scoperte dalle maniche della lunga casacca in pelle nera che indossava e che celava a stento l’ammasso glorioso dei muscoli, quelli che ad ogni singola pulsazione della carne o movimento degli arti gridavano spudoratamente ferocia. La sua pelle era olivastra e ruvida come cuoio, cosparsa di cicatrici profonde che andavano a mescolarsi disarmonicamente con l’intreccio dei tatuaggi che la ricoprivano per intero, simboli privi di significato per gli occhi di cristallo di Iliham che continuava a contemplare quel ritratto di forza e brutalità senza sosta. Si accorse che la metà sinistra della faccia di Marbh era diversa dalla sua gemella. Dava l’impressione di essersi orribilmente liquefatta, calando verso il basso, rossa ed escoriata, come se qualche forza arcana volesse calamitarla a terra. Lungo tutto il naso, a partire dalla sua radice, spuntavano da un lato e dall’altro anellini d’oro, piccoli e lucidi. Anche le sue orecchie, di cui una era stata privata del suo lobo, erano impreziosite dai monili più strani, alcuni in metallo e altri ancora in osso. La parte della bocca che apparteneva alla metà bruciata aveva subito la stessa sorte di quel volto, incurvata all’ingiù come se vi fosse in Marbh un qualche frammento di tristezza, diversamente dall’altra il cui angolo era innaturalmente incurvato all’insù e fin troppo lungo per le dimensioni consuete di una bocca, come se qualcuno gli avesse tagliato la guancia diagonalmente con lo scopo di compensare la tristezza con la gioia. Una gioia a dir poco macabra.
Doveva essere un uomo straordinariamente bello un tempo, credette Iliham, che senza rendersene conto smise perfino di dimenarsi fra le braccia di uno dei tanti scagnozzi che Marbh aveva al suo servizio e che lo teneva ancora intrappolato contro il suo torace muscoloso. Dalla montagna d’uomo che lo fronteggiava, armata della stessa frusta che aveva usato per colpirlo da un lato e di una bastarda legata al fianco dall’altro, emerse un suono gutturale e rude. Si trattava di un ordine giunto in una lingua che Iliham non riconobbe. Alla sua destra spuntò tutto d’un tratto un ragazzino, uno dei tanti che lavoravano con lui. Uno di quelli che disprezzava particolarmente. Il suo sorrisetto tronfio non gli era mai piaciuto. Era come se Palla di Lardo, così come veniva segretamente nominato fra i bambini – anche se ormai non era più un segreto nemmeno per lui – per via della sua pancia abbondante, sapesse sempre qualcosa che agli altri sfuggiva. Quell’esperienza fu più che utile a fargli comprendere quanto il suo intuito difficilmente falliva. Palla di Lardo gli si avvicinò mentre Iliham lo fissava con scetticismo e livore, spostando lo sguardo dal volto di Marbh alla mano grassottella del ragazzino diretta verso una tasca dei suoi pantaloni. Dalla stessa emerse, l’istante successivo, un radioso diamante che il figlio dei barbari scrutò con aria incredula. Si sarebbe accorto del suo peso se lo avesse trascinato fino a quel momento nella tasca. Ma vi era un dettaglio molto più significativo in tutta quella storia. Iliham non era un ladro. Non lo era mai stato. A quel punto comprese. Le sue labbra si piegarono in una smorfia carica di disprezzo, così come quelle di Palla di Lardo per un attimo, un solo miserabile attimo, si riempirono di un’empia e malevola soddisfazione prima di aprirsi in una O sbigottita.
«Ladro! Ladro!» sbraitò alla folla che già si era accalcata nei dintorni fino a formare un vasto semicerchio attorno a loro. Quasi tutti gli altri lo seguirono finché quella parola non riecheggiò da un lato all’altro della Fossa. Quel coro concitato fu talmente assordante da raggiungere anche Laila che, dal pozzo centrale della prigione, si diresse rapidamente nella direzione indicata da quelle voci, cercando di farsi spazio fra la calca di persone.
«Silenzio...SILENZIO!» ordinò la voce imperiosa di Marbh, minacciosa almeno quanto lo era il suo aspetto e dal tono vagamente deformato, come se non fosse del tutto abituato ad esprimersi nella lingua comune. La folla si ammutolì all’istante, così la montagna d’uomo riprese a parlare, senza mai staccare gli occhi di dosso da Iliham.
«Chi sa dirmi cosa succede ai ladruncoli che osano rubare oggetti di MIA proprietà?» domandò, con una sfumatura di perversione nella voce.
«Gli vengono tagliate le mani!» rispose Palla di Lardo senza esitazioni, gongolando come se Marbh al posto della frusta stesse impugnando una ciambella cosparsa di zucchero.
«Esatto!» esclamò Marbh con una certa enfasi, sgranando gli occhi neri verso il ragazzino biondo che lo osservava e che sembrava affrontare ciò a cui stava per andare incontro con un orgoglio che, ne era inconsapevole, avrebbe reso fiero di lui suo padre.
«Gli vengono tagliate le mani» ripetè la montagna, abbandonando la frusta a terra e sfoderando la spada. La lama tirata a lucido compì un arco intero verso l’esterno, tagliando l’aria con decisione, tanto che quella parve gemere per una frazione di secondo. Mentre Palla di Lardo rideva a crepapelle l’uomo che lo tratteneva costrinse Iliham a spingere le braccia in avanti e ad esporre le sue piccole mani dinanzi a sé, anche se non fu così difficile visto che il ragazzino non oppose resistenza. Palla di Lardo e molti altri sembravano eccitati all’idea di poter avvertire presto l’odore del sangue ma soprattutto a quella di recare un po di dolore al bambino muto. Forse, speravano, almeno in quell’occasione avrebbe aperto bocca. Ma a Iliham, che mantenne il suo sguardo gelido immobilizzato in quello di Marbh, parve di intravedere un lampo di rabbia in quegli occhi scuri. No, non era solo un’impressione. Marbh era fuori di se dalla collera e quando l’orfano comprese la ragione di tanto astio se ne compiacque intimamente. Ad alimentarla fu la sua innegabile mancanza di paura, simile a quella di chi non ha nulla da perdere.
Mentre il capo degli schiavi portò la bastarda all’indietro per caricare il colpo, Iliham si preparò a riceverlo senza muoversi di un centimetro, con le braccia ostinatamente tese in avanti e le cristalline inchiodate verso il volto del suo carnefice.
Era pronto.
La lama vibrò nell’aria.
La folla trattenne il fiato.
Quel coraggio apparentemente dissennato non era certo comune.
Marbh lo riconobbe in un lampo di furia cieca.
Era il coraggio di un Barbaro.

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An Ealù – La Fuga



Laila credeva che un uomo non potesse ritenersi più prigioniero di così…ma si sbagliava di grosso. La cella nella quale fu rinchiusa non era grande nemmeno la metà di quella nella quale aveva trascorso gran parte dei suoi giorni da schiava. Puzzava di cose lasciate a marcire a lungo, era stretta, lunga e rivestita dell’odore fetido della morte. Se non fosse stato per la presenza saltuaria di qualche ratto di sicuro la donna che aveva allevato il figlio dei barbari sarebbe impazzita nel giro di poco tempo. Non un misero raggio di luce riusciva a penetrare fra le pareti rocciose di quella prigione dal momento che la porta era totalmente rivestita in acciaio, nei muri non vi erano fessure e gli spioncini restavano perennemente chiusi. Vi erano delle notti in cui, legata in catene su di un angolo della prigione, Laila rincorreva il pensiero legato ad un ricordo fin troppo recente ma che nella sua mente appariva quasi distorto, come se in realtà fossero passati innumerevoli anni dal giorno della fuga del piccolo Iliham, quella che lei stessa aveva ordito contro gli interessi dell’uomo che fino a quel momento le aveva concesso di vivere una vita meno miserabile rispetto a quella di molti altri. A confronto con l’inferno che stava passando in quei giorni, si ritrovava a pensare, la morte era un’opzione di gran lunga preferibile..eppure mai, nemmeno per una volta, si pentì della scelta presa...

«Staaaad!» aveva urlato Shannon tra la folla, un istante prima che la lama di Marbh tranciasse i polsi dell’orfano, la stessa che, in risposta a quel grido disperato, aveva deviato, ad un soffio da quelle carni morbide, il corso della sua traiettoria, abbattendosi al suolo con un tonfo sordo e fastidioso. Tutte le facce dei presenti si erano voltate improvvisamente in direzione di Shannon che subito dopo era emersa dalla calca di persone, con un’aria grave sul volto scuro e che, per quanto fosse giovane, sembrava già quello di una vecchia. Era fin troppo simile alla madre ma i suoi occhi nocciola, nell’istante in cui avevano puntato quelli di Iliham, possedevano ancora tracce di senno. Era la nuova Bean Feasa della Cerchia, primogenita di Sherazar, Custode del Dono.
«Abair liom cad chuige!» aveva chiesto Marbh in un impeto di rabbia, trattenendo ancora l’impugnatura della spada fra le dita. Sheraan, a seguire un sospiro profondo, gli aveva risposto.
«Perchè spargere sangue questa notte non ha senso, Khaleen. Luna Piena essere domani. Dorchadass, grande Dio di Tenebra, apprezza sacrificio quando Gealach è gravida. Dio benedirà tutti se offriamo Lui sangue di Leathfear quando Gealach ha pancia piena.»
Non aveva ricevuto l’istruzione della madre alla lingua comune, ma nel suo tono sommesso vi era un’urgenza reale che né a Marbh né tantomeno a Iliham sfuggì. La montagna, respirando con ardore rabbioso, aveva infine decretato «Ea! Ma quando la Luna sarà piena, il ragazzino morirà.» prima di allontanarsi da tutti, voltando le spalle al figlio dei barbari con una veemenza gonfia di promesse. Laila, che aveva nascosto prontamente il pugnale con il quale aveva minacciato, un minuto prima, la figlia di Sherazar, cercò lo sguardo del bambino tra la folla. Lui lo aveva ricambiato e aveva capito che Laila aveva commesso un errore. Ciò che non poteva capire era che a causa di quell’errore si era appena consegnata fra le braccia della morte, né quanto atroce sarebbe stata.

Ingannare la sentinella che si occupava del trasporto dei materiali dalla Gola - il settore più luminoso della prigione chiamato così perché tagliava la Fossa verticalmente attraverso un tunnel incredibilmente lungo, simile ad un pozzo, e che si apriva sulla superficie della terra come una bocca - al mondo civilizzato al di fuori della stessa non fu difficile, non quanto sgozzare quella che si occupava di tenere d’occhio la gabbia nella quale avevano rinchiuso il giorno prima il piccolo orfano. Bastò alzare la gonna, aprire le cosce, soffiare qualche parola ingannevole al suo orecchio, mostrare un sorrisetto malizioso e agitare le lunghe ciglia sopra gli occhi per distrarre Benjen, un uomo grasso, stupido e soprattutto affamato di sesso. Il ragazzino dagli occhi di cristallo e i capelli biondi come il grano la fissava dall’ombra con sguardo attonito. Gli aveva intimato di non muoversi fino al suo segnale, ma non gli aveva detto a che prezzo. Era indeciso se picchiare a sangue quell’individuo o dirigersi verso il montacarichi piazzato al centro di quell’area. Laila ricambiò quello sguardo da sopra la spalla dell’uomo che la stava possedendo con una certa enfasi e, Iliham ci avrebbe messo la mano sul fuoco, con una briciola di pudore. Era a causa di quella, e non della foga con cui l’altro la investita, che le gote le si imporporarono violentemente di rosso. Quel ragazzino aveva solo sei anni e in quei sei anni aveva già compreso tutto quello che un uomo dovrebbe poter apprendere nel corso di una vita intera. Quel giorno, fra i tanti, fu molto utile a tal proposito. Eppure, malgrado tutto, non vi era un altro minuto da perdere. Laila lo sapeva e così anche Iliham che, in risposta alla sua occhiata disperata, si fiondò il più rapidamente possibile verso il montacarichi i cui ingranaggi già cominciavano a rianimarsi, così come le corde intorno alle ruote che lo sorreggevano a tendersi fino allo stremo. Quello sguardo, per giunta, fu l’ultimo in assoluto che si scambiarono, perché non appena ebbe raggiunto la piattaforma di legno dell’elevatore il piccolo Leathfear, così come l’aveva soprannominato la vecchia Sherazar, si accucciò sotto una coperta di lana e sparì alla vista di chiunque, compresa quella di Laila, già annebbiata dalle lacrime.

«Non appena sarai fuori dalla fossa comincia a correre! Scappa! Scappa e non voltarti mai indietro, per niente al mondo! Trova un luogo sicuro in cui rifugiarti e non fidarti di nessuno!» gli aveva sussurrato contro un orecchio Laila, nell’attimo in cui l’aveva tirato fuori dalla gabbia.
E lui correva. Correva come se avesse il diavolo alle calcagna..e forse, in effetti, era proprio così. Fu per questa ragione che Laila da amante divenne ben presto vittima della furia di Marbh, nell’attimo in cui Sheraan gli svelò la verità. Fu per questo motivo che, dopo aver trascorso un intero ciclo di luna al buio, nell’umidità di una cella squallida, fu bruciata pubblicamente nella piazza centrale della Fossa e il suo corpo, o ciò che ne rimase, fu lasciato lì per giorni, come monito per tutti coloro che tradivano la fedeltà del capo degli schiavisti. L’Angelo non aveva potuto salvarla dalla fiamme infernali come accadeva nella storia raccontata da Sherazar pensò, mentre il fuoco la corrodeva, ma forse, immaginò in un ultimo pensiero disperato prima che la vita le venisse strappata definitivamente via dal corpo, non era lei che avrebbe dovuto salvare.
Tutto questo, all’insaputa del ragazzino che, una volta sgattaiolato fuori dal montacarichi – sfuggito, grazie al favore delle tenebre e alla furtività coltivata per tutto il tempo della sua prigionia, allo sguardo della sentinella che si trovava a guardia dell’uscita della Gola - e raggiunto il limitare dei boschi che circondavano quell’apertura, si lasciò avvolgere dall’abbraccio protettivo degli alberi e delle ombre. Quella notte il figlio dei barbari non si fermò mai, né si volto indietro. Quella notte vide per la prima volta in vita sua la Luna, Colei che sembrava proteggerlo in gran segreto dal giorno della sua nascita. La trovò infinitamente splendente e luminosa, piena, come il ventre gravido di una donna. Era la cosa più bella che i suoi occhi di ghiaccio avessero mai visto.
Quando la prima impronta apparve nell’humus del sottobosco era spuntata da poco l’alba. La riconobbe senza troppa difficoltà. Conosceva perfettamente quelle tracce visto che ve ne erano a centinaia all’interno della Fossa e, grazie ai racconti recepiti dagli altri schiavi, sapeva che la foresta di Karinhold pullulava di creature fin troppo simili ai cani addomesticati dagli uomini, solo molto più selvagge, grandi e letali. Era un’impronta di Lupo.


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An Mac Tìre – Il Lupo



Le impronte proseguivano per metri e metri. Si stendevano verso il fulcro pulsante di quella rigogliosa e verdeggiante foresta come un sentiero. Non sapeva perché le stava seguendo, ma sapeva che in qualche modo quelle costituivano la sua sola possibilità di salvezza, perché altre direzioni da intraprendere non ne aveva, né possedeva altre mete da rincorrere. Karinhold era un luogo ospitale a suo modo, ma lo sarebbe stato molto di più se quel bambino non fosse cresciuto tra cunicoli rocciosi e prigioni anguste. Per un attimo, un inconsistente e fugacissimo attimo, Iliham provò nostalgia della Fossa. Non credeva che gli sarebbero mai mancati quei corridoi stretti e polverosi, il piccolo giaciglio di paglia nel quale dormiva o il piatto di zuppa tiepida conquistato al termine della giornata, quello che di solito osservava con disgusto e mangiava controvoglia, almeno fino a quel momento. Le suole delle scarpe si consumarono ben presto e così anche la piccola scorta di pane secco che Laila si era preoccupata di raccimolare e di chiudergli all’interno di una bisaccia assieme al diario che conteneva la sua storia. I piedi gli sanguinavano copiosamente da giorni e le mani si riempirono di graffi ed escoriazioni. Le labbra, se possibile, subirono una sorte ben peggiore. Screpolate e ruvide, tanto che in alcuni momenti sembravano volersi staccare dalla bocca, furono il primo segnale evidente della disidratazione che lo colpì in pieno giorno, quando gli alberi si facevano radi e la penombra offerta dalle loro chiome non era abbastanza sufficiente a tenere il sole lontano dalla sua traiettoria. Non sapeva in che mese dell’anno si trovava. Non sapeva nemmeno in quale sfortunata stagione era finito non conoscendo né gli uni né gli altri ma capiva perfettamente quanto quel caldo fosse insopportabile. Decise quindi di avanzare durante la notte, che ben presto divenne la sua sola alleata, non appena il tramonto rigettava i suoi colori accesi e caldi sulla linea dell’orizzonte, e di riposare durante il giorno, quando l’alba si affacciava dietro le prime file di alberi e la foresta si stiracchiava, pronta per l’ennesimo risveglio. Abituare gli occhi al buio in fondo non fu poi così impossibile, ma seguire le tracce lo divenne, specie quando, in una notte più cupa e inquietante di molte altre cominciò a piovere a dirotto.
La pioggia era talmente fitta che guardare al di là del proprio naso fu una vera impresa. Ad ogni passo che consumava ve ne erano altri cinque che perdeva scivolando a terra, tornando in piedi l’istante successivo con le mani e il volto pieni di schizzi di fango. La scelta di attendere la fine di ogni intemperia lo tentava ad ogni minuto trascorso sotto quella che ben presto si tramutò in una tempesta violenta, ma sapeva bene che sarebbe stata la meno saggia da prendere visto che in tal caso il percorso tracciato dal lupo che aveva tanto faticosamente guadagnato fino a quel momento sarebbe scomparso del tutto, cancellato dall’implacabilità della pioggia. Non alzava nemmeno più lo sguardo ormai, troppo concentrato sul terreno bagnato sotto i suoi piedi e fu proprio a causa della poca attenzione che rivolse nei riguardi di ciò che lo fronteggiava che non si accorse della scarpata dinanzi a se. Un piede gli si impigliò nella radice di un albero causando la rovinosa caduta che lo vide ruzzolare per tutta la lunghezza di quel ciglio imprevisto. La testa colpì ripetutamente i massi incontrati sulla pendenza contro la quale il suo piccolo corpo rotolava, guadagnando velocità ad ogni centimetro conquistato prima di fermarsi definitivamente grazie all’impatto che lo fece schiantare contro un cespuglio. Con la faccia immersa nel terriccio e gli occhi chiusi cercò di appurare lo stato dei danni provocati dalla caduta: la schiena gli causò spasmi di sofferenza non appena tentò di rimettersi in piedi, il labbro inferiore era spaccato e le gambe e le braccia indolenzite ma perlomeno era ancora, miracolosamente, vivo.
Quando staccò il volto da terra ed ottenne il privilegio della vista, tuttavia, si rese conto che forse non lo sarebbe stato ancora per molto.
Piazzato ad un soffio di distanza dal suo naso c’era, infatti, il muso gigantesco di un lupo.
La morte assunse una definizione tutta sua in quel momento. Aveva il colore giallo di quegli occhi enormi e vividi immersi nei suoi, il suono di un ringhio minaccioso e cupo, l’odore ferroso di quell’alito caldo che lo avvolgeva e l’aspetto imponente di un corpo animalesco ricoperto di peli. Era un esemplare giovane e magrolino ma i suoi denti erano abbastanza affilati che sarebbero riusciti tranquillamente a sgozzarlo, se solo avessero voluto. E’ la fine, credette, mentre la bestia continuava a fissarlo da quella distanza quasi nulla come se avesse voluto soppesare i punti deboli di una più che succulenta preda. Tuttavia nessuna paura lo colse, nemmeno quando l’animale mostrò maggiormente le gengive rosse e le fauci schiuse e grondanti di bava. Affrontò l’idea della morte con lo stesso coraggio dimostrato dinanzi allo sguardo furioso di Marbh, sfidando quegli occhi dorati senza muoversi di un centimetro o lasciarsi avviluppare da tremori involontari, mantenendo il capo dritto, fiero quanto quello della bestia che lo fronteggiava. La stessa che, dopo un tempo inquantificabile, con un’eleganza che Iliham non aveva mai scorto prima, serrò la bocca e gli voltò le spalle come se nulla fosse, dirigendosi verso il folto dietro il quale subito dopo scomparve, inghiottita dall’ombra. Non riusciva a capacitarsi del perché ma era chiaro che il lupo aveva deciso di risparmiarlo. Il Lupo. Tutto d’un tratto gli tornarono in mente le parole di Sherazar riguardo il suo destino e quelle creature. Seguili, aveva detto, Gealach ti indicherà la strada. E fu a Lei, alla Luna, che si rivolse, alzando gli occhi al cielo alla ricerca di quella palla luminosa prima di tornare a scrutare il bosco, laddove alcuni fasci lunari sembravano volersi aprire un varco fra le foglie. Rimettendosi in piedi si mosse in quella direzione, lentamente e con cautela, portando le braccia avanti per spostare i rami che si piazzavano fra lui e tutto ciò che si trovava dall’altra parte, agevolando la curiosità di Gealach che subito approfittò di quella fessura per avvolgere nella sua luce d’argento il profilo di quella che agli occhi di chiunque sarebbe parsa come una fattoria ma che a quelli di Iliham sembrò nient’altro che una salvezza, oltre che una conferma.
Sherazar non era una semplice megera. Era gli occhi e le orecchie di un Dio misericordioso, perchè le impronte del Lupo seguite fino a quel momento gli avevano appena salvato la vita.


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An Saor – L’Artigiano



Il fieno che aveva raggruppato in un angolo della stalla non era certo il massimo della comodità ma a confronto con la terra umida o i sassolini che Karinhold gli aveva offerto come giacigli improvvisati sembrava il paradiso. Un paradiso rumoroso, certo, visto che nel bel mezzo di un sonno che sperava potesse durare ancora a lungo qualcosa di frastornante lo obbligò a svegliarsi di soprassalto. Scattò, ginocchia e mani a terra, con la stessa rapidità di un animaletto selvaggio. E fu quella l’idea che di sicuro balenò nella mente dell’uomo che lo stava osservando dall’altra parte della stalla, armato di un grosso forcone e di uno sguardo truce. Lo sconosciuto era basso e robusto, aveva gli occhi e i capelli neri come il carbone – ad eccezione di qualche filo d’argento che ne sporcava la lucentezza - e lineamenti incredibilmente squadrati, netti, come se qualcuno ne avesse lavorato gli angoli con una lima. Era vestito di panni grezzi e semplici e Iliham comprese di essere appena finito nel suo territorio, così come intuì che se quell’uomo avesse tentato di ucciderlo, di sicuro ci sarebbe riuscito. Ma non lo fece, poiché si limitò a parlare.
«Chi sei e che ci fai nella mia fattoria?» a rispondergli fu il nulla. Aveva un accento duro e un tono di voce basso ma profondo. «Cos’è? Il gatto ti ha morso la lingua per caso?» gli adulti a volte sono così scontati...pensò il figlio dell’Eire, ancora immobile nella sua stramba posizione difensiva. L’altro sbuffò violentemente. Stava cominciando ad irritarsi, era ovvio, ed il forcone che impugnava non prometteva nulla di buono per il suo sguardo scettico. Accennò qualche passo in avanti, prudentemente, e a quel punto il bambino reagì ringhiando nella blanda imitazione di quello che, solo qualche ora prima, aveva visto fare al lupo incontrato nella foresta. Non si fidava di lui, non si fidava di nessuno e l’uomo parve capirlo immediatamente, perché di fronte a se aveva un ragazzino che mimetizzava una profonda paura dietro un misto di aggressività e audacia. Era il primo ad averlo capito. I suoi capelli erano biondi, estremamente simili alle spighe rimaste impigliate sul suo capo, arruffati e sporchi di fango. Le sue labbra erano spaccate ed il sangue raggrumato distorceva perfino la linea perfetta di quella bocca. La sua faccia era piena di tagli, così come le braccia e le gambe, disseminate di lividi e cicatrici. I vestiti che indossava, se ancora potevano definirsi tali, erano lerci e si reggevano a stento su quel corpo gracile, penzolando come pezzi di pelle da una ferita aperta. Ma i suoi occhi erano di un azzurro tanto sconvolgente e puro che il rischio di rimanerne accecati era continuo.
«Sei solo?» domandò all’improvviso lo sconosciuto, gettando occhiate furtive nei dintorni prima di tornare su di lui. Iliham, dopo aver superato l’ostacolo della ritrosia, fece sì con il capo in risposta a quella domanda. «Hai fame?» cavoli se ne aveva, per poco non gli si vedevano le ossa! Iliham agitò la testa su e giù con energia. Aveva una fame da lupi. L’uomo lo guardò con scetticismo per un’ultima volta prima di togliersi definitivamente dal volto la maschera di gelo e risolutezza trattenuta fino a quel momento. Emise un lungo sospiro ed un verso strambo risuonò nell’aria, simile al grugnito di un maiale.
«E va bene..» convenne «Per questa notte potrai restare qui se ne avrai voglia, ho preparato uno stufato di carne e dovrebbe bastare per entrambi » si arrese, ma non appena gli occhi di Iliham si illuminarono si costrinse a smorzare gran parte del suo entusiasmo.
«Bada bene ragazzino..non ho detto che puoi restare con me in eterno, né che potrai rimpinzarti con il mio cibo tutte le volte che vorrai. Ho parlato di una notte, di una notte soltanto, a patto che tu non gironzoli liberamente per la mia fattoria, non infastidisca gli animali e non combini guai, siamo intesi?» ma fu del tutto inutile il suo tentativo di apparire burbero e scontroso visto che quegli occhi di ghiaccio l’avevano già conquistato.
Lo fece mangiare, grattò via lo sporco da quel corpo ossuto e infine lo condusse in una piccola stanza. Mentre il ragazzino si rivestiva con i panni rimediati dallo sconosciuto quello lo guardava con un’attenzione che a Iliham non sfuggì. Sembrava incuriosito dall’albero di cicatrici che si arrampicavano lungo la sua schiena diafana ma ancor più da quella che riposava sul suo addome, piccola ma distinguibile. Nessuno aveva mai voluto svelargli il significato di quel simbolo alla Fossa. O forse nessuno degli schiavi lo conosceva, ad eccezione di Sherazar, visto che la vecchia Bean Feasa ne sapeva una più del diavolo. Quando Iliham si infilò nel letto caddé fin da subito preda di un sonno che, per la prima volta dopo tanto tempo, non fu interrotto né da sogni né tantomeno dai suoi consuetudinari incubi.

In quello stesso momento il padrone di casa stava sfogliando le pagine del diario trovato nella bisaccia appesa al collo del ragazzino, quello di cui nemmeno Iliham si era reso conto tanta fu la premura di Laila di nasconderlo sul fondo della borsa e di avvolgerlo attorno ad una piccola coperta di lana. Lesse senza alcuna difficoltà la sua breve ma sofferta storia e dopo averlo fatto rimase a fissare a lungo il soffitto della camera. Quella notte Ray non riuscì a chiudere occhio.

«Ti ostini ancora a non voler parlare, mh? E va bene.. » esclamò il mattino seguente, mentre Iliham ricambiava quell’occhiata con la fierezza di un bambino che voleva fingersi un adulto, senza aprir bocca. Ecco, sta per cacciarmi via, pensò, prima di udire il resto di quel discorso «..vorrà dire che imparerai a fare anche questo, oltre a mangiare come si deve e ad obbedire ai miei comandi quando ti chiederò di fare qualcosa in tutto il tempo che rimarrai qui. Non sarà semplice. Dovrai lavorare duramente, aiutarmi nella manutenzione di questa vecchia casa, pensare agli animali, all’orto e a tutto il resto. Ti insegnerò a leggere, a scrivere e a fare calcoli. Ti insegnerò molte altre cose e non ho intenzione di sentire lamentele da parte tua. Nemmeno mezza volta..» Ray si rese conto troppo tardi di quanto tristemente buffo fosse il contenuto di quell’ultima frase, ecco perché si corresse subito dopo «Beh non appena imparerai a parlare, ovviamente…»
Quella era la prima e forse anche ultima casa che il fato gli avrebbe concesso, pensò Iliham due ore più tardi, osservando alcune galline dall’altra parte del recinto mentre Ray lo spiava dalla finestra della cucina, con il cuore che gli si faceva sempre più piccolo.
I primi giorni non furono facili. A dire il vero non lo furono nemmeno i seguenti, ma poco alla volta entrambi impararono a capirsi, a convivere assieme ma anche a ritagliarsi degli spazi per loro stessi, nel rispetto delle esigenze reciproche, visto che sembravano aver necessariamente bisogno del conforto dato dalla solitudine di tanto in tanto. Erano troppo abituati a quell’aspetto che apparteneva alle loro vecchie vite da non riuscire a metterlo del tutto da parte. Vi erano dei momenti in cui, semplicemente, intuivano di doversi allontanare l’uno dall’altro e fu proprio grazie a quei momenti se il legame fra di loro andava ad intensificarsi di volta in volta. Ma vi era qualcosa che non era ancora cambiato nel frattempo. Qualcosa che sporcava la superficie di quella perfezione apparente come un puntino difficile da lavare via. Il figlio dei barbari non si fidava di Ray. Erano trascorsi già tre mesi dal giorno in cui Iliham si era intrufolato di nascosto nella fattoria e in tutto questo tempo il ragazzino ancora non aveva parlato, nemmeno una volta, ma a Ray la cosa non sembrò pesare perché immaginava che, prima o poi, avrebbe parlato di sua spontanea volontà e Iliham, nell’alcova del suo mutisto, sembrava apprezzare sinceramente il rispetto che quell’uomo dimostrò nei suoi riguardi.
Ogni mattina, dopo la sveglia, lo aspettava una colazione abbondante a seguire la quale, tutte le sante volte, il ragazzino si recava verso il lavatoio esterno della fattoria per lavare piatti e pentole. Lo riteneva un compito da donne e lo odiava, lo odiava tremendamente, ma lì di femmine, al di là della capra che ribattezzò fra se e se col nome di Namiria – era così che si chiamava la madre di Laila, come gli aveva raccontato lei stessa un giorno, perciò quel nome gli era sempre piaciuto – e delle galline non ve n’erano, perciò qualcuno doveva pur occuparsene. Dopo poco tempo le braccia sottili gli dolevano ma Ray diceva che quello era un bene, visto che stava a significare che i muscoli si mettevano all’opera e che si trattava di un esercizio utile per il quale un giorno l’avrebbe ringraziato. Iliham era scettico a riguardo ma non obiettò mai, nemmeno con un cenno del capo, continuando a seguire i dettami di quell’uomo che, mentre lui si occupava di riempire le mangiatoie degli animali e di pulire le loro stalle, si dissolveva sempre dietro l’angolo della casa, ad una certa ora del giorno, verso un luogo che al ragazzino non era concesso raggiungere, visto che gli era stato impedito di spingersi al di là del cortile esterno della fattoria. Eppure si sa, la curiosità dei bambini è sempre tanta e Iliham non ne era di certo scevro. Così un giorno decise, consapevole del guaio in cui si stava cacciando, di seguirlo fino ai margini del bosco. Ray non sembrò rendersi conto di nulla quando, mentre lui scompariva all’interno di una piccola casupola, Iliham raggiunse una finestra, arrampicandosi su una botte per sbirciare all’interno di quella costruzione. La meraviglia si estese dinanzi al suo sguardo sbalordito come se niente fosse, luccicando attraverso il riflesso dei vetri.
Lame di ogni tipo penzolavano dalle pareti e dal soffitto, alcune grandi e spesse, altre molto più sottili e acuminate, altre ancora simili a dei coltelli elaborati. Messi in fila su di un tavolo vi erano degli strani copricapi in metallo che Iliham non aveva mai visto prima, così come non aveva mai visto prima né quelli che somigliavano a dei piatti giganti in legno o acciaio appoggiati al pavimento e né quelli che apparivano come pezzi scomposti di vestiti, sempre in metallo, appesi a dei manichini di paglia. L’altra parte della stanza era dedicata a tutt’altro tipo di oggetti che allo sguardo del ragazzino parvero molto più familiari: cassapanche, testate di letti, bauli e comodini in legno, ma anche cose più piccole come giocattoli, vasi, brocche e recipienti. Oltre gli stessi, su un tavolaccio grezzo, riposavano strumenti di ogni tipo che andavano dai martelli alle pinze, dai pennelli alle lime e così via. Il fuoco di un grande caminetto sembrava stabilire la linea di confine che separava quei due mondi, quello minaccioso e splendente dall’altro più quieto e benevolo. Placido sul cuscino di una sedia a dondolo ronfava un gatto ciccione e spettinato, dal colore indefinito. Ma che diamine di posto è questo? Si stava domandando Iliham, prima che un colpo di tosse giunto direttamente dalle sue spalle lo privò dell’equilibrio necessario a reggersi sulla botte che presto rotolò a terra assieme al suo corpo.
A fissarlo dall’alto della sua imponente statura con sguardo torvo c’era lui. L’Artigiano.
[Modificato da Aileen. 29/06/2013 14:14]
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29/06/2013 14:15


– Amicizia



“Leggende e racconti dall’Asgarðr” recitava il titolo del voluminoso libro che Iliham aveva appena sfilato a stento dallo scaffale più alto della libreria, arrampicandosi su una sedia. Non era in grado di attribuire un senso a quelle lettere visto che ancora non sapeva leggere, ma sembrava comunque incuriosito dall’immagine in rilievo che si trovava sulla copertina di cuoio di quel volume. Si trattava di un grande lupo costretto in catene.
«Quando ti ho ordinato di ripulire la libreria, non ti ho chiesto anche di perdere del tempo inutilmente!» Ray era rientrato in casa in quell’istante e dal suono aspro della sua voce non sembrava in vena di scherzi. Le cose andavano avanti così da un bel po a dire il vero, più precisamente dal giorno in cui Iliham era stato scoperto a curiosare dalla finestra della fucina senza permesso. L’artigiano non gli aveva più rivolto sguardi benevoli o l’ombra di un sorriso da allora, e se gli parlava era solo per dargli dei compiti da sbrigare.
Il figlio dei barbari, mantenendo lo sguardo sul libro vi passò sopra un panno asciutto, accuratamente, per liberarlo di tutta la polvere in eccesso intrappolata sul suo rivestimento esterno. Ripeteva quelle operazioni da più di una settimana ormai. Tutti i pomeriggi, dopo l’ora di pranzo, doveva occuparsi della libreria e dei suoi tomi. Vi erano otto scaffali ed ognuno di essi riusciva a contenere almeno una trentina di libri per un totale approssimativo di...non lo sapeva, ma erano tanti, fin troppi per i suoi gusti. Trasportarli verso il tavolo non si era rivelata un’operazione semplice, soprattutto quelli particolarmente pesanti come il libro che mostrava il lupo incatenato sulla sua copertina. Le braccia gli bruciavano per la fatica ma tutte le volte in cui tentava di riposarsi veniva rimproverato immediatamente dall’uomo che, una volta terminato il suo lavoro, tornava in casa per schiacciare un pisolino sulla poltrona..o fingere di farlo.
Era stato piuttosto chiaro: «Tutti i giorni, non appena avrai finito di dar da mangiare agli animali, ripulire la cucina e di lavare i piatti, ti occuperai della libreria. La svuoterai, la pulirai da cima a fondo così come farai per tutti i libri che contiene. Una volta fatto questo li sistemerai nell’ordine in cui li hai trovati e solo allora potrai sederti a tavola per cenare.»
E Ray sembrava piuttosto intransigente a riguardo. Ma il giorno che l’uomo attendeva da tempo infine giunse, un giorno apparentemente identico a tutti gli altri. Non era il giorno in cui Iliham tentò di mostrarsi orgoglioso, rimanendo fino a notte fonda sui libri e rallentando volutamente il ritmo di quelle operazioni solo per andare a letto a stomaco vuoto nella speranza di colpire l’artigiano e la sua coscienza visto che queste cose, nel corso di quel lungo ed estenuante mese, erano già accadute. Era il giorno in cui Iliham, per la prima volta da quando si trovava alla fattoria ma anche nella sua vita, parlò.
«NO!» gridò di punto in bianco, stringendo i suoi piccoli pugni ai fianchi come faceva tutte le volte in cui era arrabbiato. La sua voce era limpida. Era la voce di un bambino. Era la voce di un ragazzino che aveva appena vinto una grande battaglia con se stesso. E lo sapevano entrambi. Ma nessuno dei due accennò niente a riguardo, anzi, quando Ray decise di guardarlo in faccia, finse una tranquillità che a Iliham fece saltare i nervi.
«No...cosa?» domandò, nascondendo la gioia dietro una pennellata di dubbio.
«No...libreria!» rispose il ragazzino, compiendo uno sforzo immane. Conosceva esattamente tutti i termini della lingua comune, così come la capiva alla perfezione, eppure esprimersi ad alta voce era diverso, era difficile, anche se non quanto ammettere una verità più che ovvia. Aveva appena buttato giù un muro, una lastra di ghiaccio che custodiva pesantemente il suo essere. Si era appena messo a nudo. Aveva scelto di parlare e quindi anche di fidarsi e sperava tanto di non doversene pentire, perchè Laila gli aveva fatto promettere di non commettere mai quell’errore. Non era riuscito a mantenere la promessa ma malgrado tutto, in quel preciso istante, provò una pace incommensurabile.
«Perché?» domandò, avvicinandosi di qualche passo all’uomo.
«Perché cosa?» chiese l’altro, anche se in realtà aveva già capito tutto.
«Perché d..devo pulire libreria s-se..» incespicò sulle sue stesse parole ma Ray ben presto gli andò incontro.
«Perchè devi pulire LA libreria se..è già pulita?» Iliham fece sì col capo.
«Per lo stesso motivo per cui prima di seminare bisogna arare la terra.» Lui continuava a non capire. A quel punto Ray lo invitò a seguirlo con un gesto e, in silenzio, si diressero entrambi verso l’esterno della casa.

«Anche io?» domandò il ragazzino in un soffio, fissando con sguardo incredulo un dondolo di legno finemente intagliato. Si trattava solo di uno dei tanti capolavori che aveva attirato la sua attenzione nell’attimo in cui avevano superato assieme la soglia delle fucine.
«Anche tu cosa?» perfino in quel caso Ray aveva capito cosa intendesse il ragazzino ma preferiva farlo parlare ad ogni occasione.
«A-anche io..potrò..creare..vita?» sì, perché per i suoi occhi cristallini quegli oggetti sembravano tutti vivi. Ognuno di loro possedeva una storia ed un’origine tutta sua. Quelle opere ingegnose erano state plasmate dalle mani sapienti dell’uomo che lo affiancava e che, per un istante, guardò il ragazzino che si muoveva attentamente fra i tavoli del laboratorio con un misto di stupore e muta letizia.
«Forse, un giorno...ma prima dovrai mettere altri muscoli su quelle braccia!» rispose Ray con affettuosa ironia. Iliham si voltò per guardarlo con aria impaurita al suono di quella frase.
«Li-libreria?» chiese con riluttanza. La risata di Ray riecheggiò per tutta la fucina, tanto rumorosa da risvegliare perfino il gatto ciccione che, infastidito, compì un balzo per scendere dalla sedia e dirigersi verso l’esterno con andatura quasi offesa.
«No, no..niente libreria...per questa settimana!» la risata dell’artigiano si era appena stemperata in una piega gioconda che ben presto contagiò anche Iliham.
In quel preciso momento, da un semplice sorriso, nacque la loro amicizia.



Oideachas – Istruzione


Otto anni. Erano trascorsi otto lunghi anni fra attimi di felicità genuina e complicazioni inevitabili. Ray non aveva mai avuto a che fare con un adolescente prima d’allora e proprio per questo non si era mai curato troppo delle lamentele rivolte dalle madri incontrate a Bjorg - il villaggio più vicino alla fattoria e che spesso visitava per affari dal momento che gran parte dei suoi clienti abitava lì – ai loro figli ‘scapestrati e lunatici’. Non tutte le parole di quelle vecchie pettegole sono gettate al vento allora, si era ritrovato a credere un giorno, con lo sguardo d’onice immobilizzato sulla schiena del figlio dei barbari le cui cicatrici erano quasi del tutto scomparse, mimetizzate nel candore della pelle per far spazio ad un intreccio di muscoli a dir poco invidiabile per un ragazzo della sua età. La manutenzione costante della fattoria, l’aiuto che prestava di continuo a Ray nelle fucine - spingendo su e giù il mantice durante la forgiatura di qualche arma, trascinando le opere che l’artigiano sfornava da quella piccola casupola al carretto al quale era legato il suo vecchio cavallo da tiro e lucidando le lame di volta in volta – era stata utile, proprio come l’uomo gli aveva anticipato tempo prima, non solo a nutrire quel corpo di una notevole massa muscolare e ad irrobustirgli le ossa ma anche ad alimentare la forza che in principio scarseggiava, compensata da una furtività e da un’agilità che adesso, per forza di cose, non gli appartenevano più. Le braccia, massicce e robuste almeno quanto le gambe, non gli procuravano più i dolori o i fastidi di un tempo, tonificate dalla perseveranza con cui ogni mattina, prima del sorgere del sole, - dopo aver offerto una carezza a Namiria, la capra divenuta ormai vecchia e fragile e che rispondeva a quella forma d’affetto belando ripetutamente dal recinto - raggiungeva i margini del bosco per correre attorno a tutta la fattoria almeno una ventina di volte e dalla costanza con cui, dopo la corsa, si impegnava nell’esecuzione di alcuni esercizi che comprendevano addominali, flessioni e piegamenti di vario tipo.
Ma per divenire un uomo completo anche lo spirito e la mente vanno nutriti, ripeteva di continuo Ray. E così Iliham si apprestò senza lamentele allo studio approfondito di tutti i campi della vita ai quali l’artigiano, divenuto oltre che suo amico anche suo mentore, giorno dopo giorno si curò di iniziarlo. Imparò a leggere e a scrivere, a far di conto e, malgrado non fu affatto semplice per lui, a parlare, destreggiandosi perfettamente sia nell’uso della lingua comune sia in quello del gaelico irlandese, i cui suoni gutturali e forti per certi versi sembravano molto più affini alla sua natura, come se li conoscesse da sempre e fossero stati ideati appositamente per quella gola. Ray si occupò di istruirlo alla storia del suo paese, offrendo in pasto a quella mente fertile i concetti basilari che gli permisero di estenderla e di renderlo molto più curioso di quanto non fosse già di suo. La sera, difatti, quando il crepuscolo anticipava il sorgere delle tenebre, si sedeva davanti alla luce del caminetto e, con gli stessi libri che in passato lo avevano fatto tanto penare appoggiati fra le gambe, leggeva per ore e ore, divorando una quantità smisurata di pagine fino a notte fonda. L’erbologia non sembrava interessarlo, così come non lo interessavano i culti popolari o i tomi che contenevano la genealogia di tutte le casate nobiliari che si erano succedute nell’Irlanda del nord fino a quel momento. Ciò che invece attirava particolarmente la sua attenzione era il contenuto del volume più grande della libreria di Ray, quello con la forma di un lupo in catene sulla copertina. La mitologia norrena in qualche modo sembrava affascinarlo, tanto che arrivò a conoscere i nomi e le vicende di tutti gli Dei nordici di cui narrava quel libro: da Thor a Loki, da Miðgarðsormr a Sleipnir, da Fenrir a Odino. Ecco, in particolar modo fu quest’ultimo a svegliare gran parte del suo interesse, non tanto per la storia che lo riguardava quanto per il simbolo che un giorno comparve dinanzi al suo sguardo sull’angolo di una pagina alla quale non aveva mai fatto caso prima. Si trattava di Gungnir che, secondo la storia, era la lancia di Odino, fabbricata dai nani per permettere al re degli dei di combattere la battaglia finale nel mondo, il Ragnarǫk. Si trattava, per giunta, dello stesso identico simbolo che aveva avuto sugli addominali fin dalla nascita, ormai simile ad un tatuaggio ma sorto come una ferita divenuta in seguito cicatrice. Qualcuno gli aveva lasciato quel marchio addosso. Una persona che all’epoca doveva conoscere bene gli Dei del Nord e tutte le vicissitudini che vi ruotavano attorno quanto Iliham li conosceva adesso.

«Tu credi negli Dei?» chiese un giorno il ragazzo, mentre Ray tentava a tutti i costi di accendersi la pipa e fuori infuriava una tempesta di neve. Dal modo in cui l’artigiano ricambiò il suo sguardo, Iliham intuì che non si aspettava quella domanda e che allo stesso tempo ne era rimasto colpito.
«Credo negli Dei quanto loro credono negli uomini. A Odino, Loki, Fenrir..» ricalcò ogni nome con un’enfasi teatrale e cupa che gli ricordò molto la voce della vecchia Sherazar, quando si apprestava a narrare una delle sue tante storie. «..non importa un fico secco se tu ti spacchi la schiena ogni santo giorno. Se sei figlio di una capra o di una vacca o se vieni pugnalato alle spalle nello squallore di un vicolo. Anche se piangi, ti disperi o preghi loro se ne staranno sempre lì ad osservarti, trionfanti nell’indifferente alterigia che li riveste, con occhi divertiti e sorrisi rubicondi dalle cime dell’Asgarðr, brindando alla tua distruzione. E tu ci credi?» domandò senza pretese.
«No…ma credo nei sogni»
Quella notte, per l’ennesima volta, sognò di entrare nei panni di un Lupo. Avvertiva tutti gli odori come se fossero reali, percepiva le cose come non avrebbe mai potuto fare nella sua forma. Vedeva nell’oscurità con la stessa precisione con cui un paio di occhi umani avrebbero visto perfettamente il mondo che li circonda sotto la luce del sole. Rincorreva qualcuno e non appena si avvicinava a quella figura indistinta sentiva il sapore del suo sangue nella bocca. Si fermava, stanco per la caccia infruttuosa, sul bordo di un fiumiciattolo d’acqua cristallina con la lingua che penzolava per la sete eppure, non appena si specchiava nel suo riflesso, non vedeva altro che un volto d’alabastro ricoperto da una cascata di capelli biondi, corti fino all’altezza delle spalle, e adornato da un paio di occhi cristallini vispi e curiosi. Era il suo volto. Ma quei sensi fin troppo sviluppati non gli appartenevano. Tutte le volte si svegliava di soprassalto, madido di sudore, trattenendo l’irregolarità dei respiri contro il cuscino senza che sullo stesso apparissero tracce di rubino liquido, anche se le avvertiva ancora nella bocca. Avrebbe voluto prolungare i sogni il tempo necessario a scorgere il volto della sua vittima ma ogni singola volta, spossato dalla veridicità apparente dei suoi incubi, crollava fra le lenzuola nella stretta di un sonno concitato che nemmeno quella notte faticò ad arrivare.
Nei mesi seguenti Iliham continuò altre domande al suo mentore che, mai parco di risposte, saziava di volta in volta la sua curiosità. Quando gli chiese cos’era la morte l’artigiano lo condusse nella stalla e, armandolo di un pugnale affilato, lo invitò a metter fine alle sofferenze della povera Namiria. Il ragazzo inizialmente si rifiutò di farlo ma quando Ray gli spiegò che sarebbe morta comunque fra gli strazi di lì a breve si decise, tagliandole la gola con un colpo netto. La sua prima Morte. E capì. Si trattava di una forza necessaria almeno quanto la sua gemella, Vita, a tenere i piatti del mondo perfettamente equilibrati. Un giorno il ragazzo, che con il tempo si preparava a divenire un uomo, gli chiese cos’era l’amore e a quel punto l’artigiano gli indicò la strada per raggiungere un edificio in pietra sorto sui confini occidentali di Bjorg, vicino ai margini della foresta. Fu allora che la vide per la prima volta.

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Grà – Amore



Lo scontro fu inevitabile, ma dei due a rimetterci fu solo l’altra dal momento che l’impatto contro il suo torace robusto gli offrì niente di più che una sensazione simile al solletico. Lei invece cadde a terra, colpendo i ciottoli sottostanti con le natiche.
«Scusami» bofonchiò, piegandosi sulle ginocchia per cercare di aiutarla a rimettersi in piedi.
«No scusami tu! Sono terribilmente distratta, la mamma me lo dice sempre: “perché non guardi dove metti i piedi una volta tanto! Insomma, vuoi scendere da quelle nuvole si o no?”Accidenti, mi dispiace! Parlo sempre troppo e non riesco mai a mettere un freno alla lingua. E’ un difetto che ho fin dalla nascita. Cioè..uno dei tanti» riuscì a guardarla in volto solo allora, concentrandosi su di lei mentre le tendeva una mano. A rispondere a quello sguardo curioso furono due gemme d’argento, fuse nello spazio di un paio d’occhi leggermente allungati in direzione delle punte. Onde di capelli neri come le tenebre fiorivano dal suo capo, circondando un ovale dai tratti infantili la cui pelle era bianca come il latte e le cui labbra piene, dolcemente incurvate verso l’alto, erano rosse come ciliegie. Quel sorriso gli concesse l’amabilità di un brivido. Un brivido che non aveva mai provato prima d’ora. Quando l’altra gli strinse la mano accettando la sua stretta gli ci volle più di qualche minuto per riprendersi.
«Va tutto bene?» domandò lei. Sembrava seriamente preoccupata. Iliham per tutta risposta compì un vago cenno del capo. Oh no, stava correndo il rischio di dimenticare tutto! Com’è che si faceva a parlare? Ah ecco, doveva semplicemente muovere la lingua sul palato e ricollegare il cervello alla bocca.
«Sì sì è solo che mi sembrava di aver visto un’ombra in fondo alla strada e allora ho pensato che forse sarebbe stato meglio rimanere bassi per passare inosservati.» Che scusa ridicola! Perlomeno tutte quelle parole messe in fila rapidamente pareggiarono il silenzio che l’aveva preso alla sprovvista un attimo prima. Lei reagì in modo inaspettato, sgranando gli occhi e scattando nella sua direzione per stringersi a lui con forza.
«Un’ombra? Dove? Ne sei proprio sicuro? Me l’aveva detto la mamma di non girare fra i vicoli a quest’ora della notte» bisbigliò, tremando come una foglia contro il suo corpo. Non la sfiorò. Non ne aveva il coraggio, lui che non temeva quasi niente e nessuno sembrava aver paura di una semplice ragazzina. No, non era semplice. Era perfetta.
«Credo che se ne sia andato..» mentì. E così lei sciolse lentamente la presa mentre lui cercava di ricomporsi, immobilizzato come un blocco di ghiaccio.
«Che fortuna! Scusami, so di essere una vera fifona ma una volta, quando ero piccola, mia sorella mi ha fatto prendere uno sp...oh perdonami, perdonami tanto, lo sto facendo di nuovo, parlo sempre a sproposito!» scrollò il capo con energia mentre abbassava lo sguardo.
«N-non, non importa..mi piaci.» che cosa aveva appena detto? Si corresse immediatamente, maledicendosi per la sciocchezza appena compiuta.
«Cioè volevo dire che mi piace il tono della tua voce...» così andava meglio. Forse. Lei alzò la testa e gli occhi grigi le si illuminarono. Avevano appena risucchiato tutta la lucentezza delle stelle.
«Davvero? Grazie» lui non sapeva cosa dire e allora lei intervenne nuovamente.
«Oh che sbadata, non ti ho ancora detto il mio nome. Io mi chiamo Kyra e tu?»
«Iliham» Kyra. Il suo primo Amore. E capì. Si trattava di una forza straordinaria che metteva in moto tutti i satelliti e che serviva a mantenere in vita il cuore. Col suo ci riuscì perfettamente.

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An Gadaì – Il Ladro



In quel momento Iliham e Ray si trovavano sulla strada del ritorno. Il ragazzo gli parlò a lungo del luogo in cui Kyra lo aveva accompagnato e che il mentore gli aveva indicato. Un posto stranamente esotico e pieno di donne coperte solo dalla leggerezza di qualche velo, ma gli parlò soprattutto di Kyra, della sua bellezza e dolcezza e di quello che aveva provato nell’attimo in cui lei gli aveva stampato le sue morbide labbra sulla bocca.
Poi rimasero zitti entrambi, finché il figlio dei barbari non si decise a domandare :
«Ma che posto è quello?» L’artigiano rise di gusto al suono di quella domanda.
«Le chiamano case del piacere. Gli uomini pagano le donne per passare qualche ora in loro compagnia»
«E da quando in qua uno deve pagare per avere compagnia?» Era una domanda ingenua ma in fin dei conti giustificata se giunta da un ragazzo che aveva passato i primi sei anni della sua vita in una prigione e gli altri otto in una fattoria in compagnia di capre, galline, cavalli e di un vecchio.
«Ma non è una compagnia qualunque. E’ speciale.» non sapeva che altro dire.
«Lo è stata anche quella di Kyra e lei non mi ha chiesto dei soldi.»
«Perché evidentemente Kyra non è una prostituta.»
«E a che servono le prostitute se ci sono ragazze come Kyra?» No, non aveva bisogno della risposta di Ray in quel caso. Non vi erano altre ragazze come Lei.
«Perché mi hai fatto andare lì? Io volevo capire cos’era l’amore. Non il piacere.»
«Perché per capire l’amore, devi prima capire cosa non è.» Iliham rimuginò a lungo sul senso di quella frase criptica. Era proprio quel genere di risposta che doveva aspettarsi da un tipo come lui.
«E non si possono avere entrambi?» il suo tono si sporcò per la prima volta di un’ombra maliziosa della quale si pentì l’istante successivo. Ray gli sorrise con benevolenza, allungandogli un braccio sulle spalle proprio come avrebbe fatto un padre.
«Certo che sì ragazzo mio. Certo che sì...» Le loro risate si mescolarono vivacemente nell’aria e per un bel po continuarono a procedere in direzione della fattoria con dei sorrisi pieni stampati sulle labbra. Ma la gioia non può durare in eterno e con loro non fece eccezioni.

La casa era sottosopra. Eppure i mobili rovesciati a terra, i parecchi suppellettili distrutti, gli animali scomparsi dai loro recinti assieme all’oro che Ray aveva raccimolato per anni, non li colpirono quanto lo fece la vista della fucina completamente svuotata. Non era rimasto più niente, nemmeno gli strumenti da lavoro, se non il gatto ciccione che, visibilmente terrorizzato, si era nascosto sotto l’unica parte lasciata intatta all’interno dei laboratori: la sua preziosa sedia a dondolo. Non avevano più cibo, né protezione. Non avevano più libri, tranne il diario che Ray aveva gelosamente custodito in un punto talmente ben celato da riuscire a scampare a quella razzia inaspettata. Li avevano privati di tutto. Perfino dei sogni. Ladri. Era la parola che l’artigiano continuava a bisbigliare da giorni, preda di una disperazione che tentò in tutti i modi di sminuire nella speranza di non alimentare troppo l’ombra che aveva scorto distintamente nello sguardo di ghiaccio di Iliham, quella notte. Era uno sguardo spento, assente e per questo ancor più pericoloso di quanto non lo fosse quando si riempiva di rabbia. Ray cercò di costringerlo in tutti i modi a mangiare ciò che il ragazzo raccoglieva nei boschi , merito dell’esperienza vissuta in quella stessa foresta anni prima, ma senza riuscirci. Iliham aveva fame, era ovvio, ma quello che riusciva a portare a casa, di ritorno dalle sue esplorazioni, era sempre troppo poco e non aveva intenzione di privare l’artigiano di cibo, perché si convinse di essere forte abbastanza da riuscire a convivere con quel buco nello stomaco ancora per un po. Inoltre era giovane e in salute, differentemente da Ray, i cui primi acciacchi già si stavano presentando sulla soglia dei sessant’anni appena compiuti...
Lasciò trascorrere altri due giorni prima di rendersi conto che non era possibile andare avanti così. Doveva fare qualcosa. Doveva farlo per quell’uomo che lo aveva tirato su con tanto affetto, senza fargli mancare mai niente nel corso di tutti quegli anni.
Fu questo che disse a se stesso la prima volta che rubò. Si trattava di due semplici mele della cui scomparsa nessuno si rese conto, strappate con un gesto rapido da uno dei tanti banchi del mercato che tutte le mattine si rianimava nella piazza principale di Bjorg. Il senso di colpa era grande, incredibilmente grande, specie perché fu costretto a mentire a Ray…
«Ho parlato con un pastore che vive fra le colline, a poca distanza dal villaggio. Ho cercato di spiegargli la nostra situazione e lui si è mostrato molto comprensivo. Ha detto che cercava da anni un ragazzo forte e in gamba ma che tutti quelli che ha assunto si sono dimostrati sempre dei delinquenti. Tutte le mattine dovrò recarmi da lui e portare le sue pecore al pascolo. Ha detto che se sarò onesto e competente mi pagherà e anche profumatamente!»
Non aveva potuto fare altrimenti, consapevole del fatto che un comportamento del genere il mentore non l’avrebbe mai accettato, nemmeno a costo di morire di fame. Era un uomo onesto e allora Iliham si caricò sulle spalle il peso di una scorrettezza necessaria. Arruffava tutto ciò che riusciva a prendere e la furtività che l’aveva abbandonato anni prima, per sua fortuna, veniva quasi sempre compensata dalla distrazione dei mercanti o dal rumore assordante della folla.
Una mattina, però, le cose non andarono per il verso giusto. Si accorse troppo tardi della presenza di un secondo mercante dall’altra parte del bancone. Non essendo occupati con nessun cliente per gli occhi dell’altro fu facile trovare l’anomalia nel mucchio di prodotti esposti. La mano di Iliham aveva appena agguantato un pollo dall’aspetto sano, già spellato e pulito e quando l’uomo gridò «Al ladro! Al ladro!» il panico insorse. La gente si voltava ovunque per cercar di capire cosa stesse succedendo e allora lui si intrufolò nella calca, non avendo altra scelta, sfuggendo per un soffio alla mano grassoccia del mercante che già mirava al bavero della sua camicia, ricavandosi un passaggio tra la moltitudine di gambe e piedi che più di una volta gli calpestarono le mani. Il mercante continuava a correre e a sbraitare, imperterrito e soprattutto inferocito «ACCIUFFATE QUEL DELINQUENTE! »
A Iliham quel villaggio non era mai sembrato così piccolo come quel giorno. Tutti i muri davano l’impressione di restringersi attorno a lui e quell’accozzaglia di corpi sudati non faceva altro che spintonarlo in ogni direzione. Perse ben presto il senso dell’orientamento. Non aveva più una meta. Sapeva solo di dover fuggire e di doverlo fare con la stessa rapidità con cui scappò dalla prigione, anni prima. Poi, tutto d’un tratto, quattro paia di braccia lo avvinghiarono prepotentemente e lui non potè far nulla per fermarle. Lo avevano colto alla sprovvista. Nel giro di un secondo si ritrovò all’interno di un vicolo buio e lercio, sovrastato frontalmente da un individuo che gli premette una mano contro la bocca con forza mentre un altro lo bloccava contro la parete retrostante. Il ragazzo di cui riuscì a scorgere il volto aveva una faccia scavata e abbronzata, un paio di occhi verdi ed una zazzera di capelli castano scuri, ma soprattutto era armato di un pugnale e di uno sguardo tagliente con cui gli intimò, come se la punta dell’arma immobilizzata ad un soffio dal suo collo non bastasse, di star zitto. Le parole che seguirono confermarono quell’idea.
«Non dire una parola o sei morto» bisbigliò, cercando di assumere a tutti i costi un’aria minacciosa. Il suo compagno, quello che si trovava alle sue spalle, mormorò concitatamente.
«Che dobbiamo farne di lui?»
Il tizio dagli occhi color foresta premette con più decisione la punta del pugnale contro il suo collo, tanto che Iliham riuscì ad avvertire un rivolo di sangue colargli sulla pelle. Il figlio dei barbari non provò paura e continuò a sostenere lo sguardo dell’altro come se volesse cercare di capire fino a che punto era disposto a spingersi. Ma poi lo sconosciuto compì un gesto del tutto inaspettato. Allontanò la punta dell’arma dal suo collo, la rigirò e gli rivolse l’impugnatura, invitandolo ad afferrarla mentre impartiva all’altro ragazzo l’ordine di lasciarlo andare.
«Gli insegneremo cosa significa davvero rubare. Lo renderemo un ladro» sussurrò a poca distanza da lui, con un sorriso balordo stampato sulla sua faccia scottata dal sole.

Kaleb – il nome che gli svelò il ragazzaccio di strada poco tempo dopo - mantenne la parola.
Quel giorno lo aveva tirato fuori dai guai e non si risparmiò di farlo nemmeno in quelli seguenti, cercando di istruirlo alla vita spericolata che invece a lui apparteneva da sempre come meglio poteva. Si scoprì che in realtà Kaleb lo stava osservando da giorni perché quel semplice furfante aveva occhi e orecchie dappertutto. Credeva di avere il villaggio ai suoi piedi e ben presto anche Iliham si convinse di quell’idea visto che non vi era un segreto che riguardasse Bjorg del quale Kaleb non era a conoscenza. Conosceva i suoi vicoli a menadito così come i nomi dei suoi abitanti, le loro mansioni e abitudini, gli orari in cui uscivano di casa come quelli in cui rincasavano e tutto questo anche per merito di uno sparuto gruppo di ladruncoli che avevano più o meno la sua stessa età e che lo seguivano come cani attaccati ad un osso. Erano perlopiù orfani, costretti a quell’esistenza priva di radici perché la vita non aveva saputo offrire loro nient’altro. Gli ricordavano fin troppo i bambini con i quali condivideva la cella da piccolo e fu per questo che si legò ben presto a loro, che trovò conforto e consolazione in quel piccolo gruppo di ladruncoli senza casa, famiglia o valori. Ogni volta in cui si avvicinava sempre più a loro, tuttavia, inconsapevolmente per lo stesso figlio dei barbari, non faceva altro che allontanarsi irrimediabilmente da Ray. Il vecchio lo intuì ben presto. Quello che invece non intuì era il motivo reale che spingeva Iliham a scappare dalla fattoria alle prime luci dell’alba per rientrare al tramonto, visto che il ragazzo continuava a rifilargli la scusa del pastore e delle pecore di cui doveva occuparsi. La mattina si recava al ‘quartier generale’ – un vecchio fienile abbandonato a pochi passi dal villagio – per partecipare ad una breve riunione durante la quale Kaleb esponeva i piani e le occupazioni giornaliere di ciascuno ed il pomeriggio entrava in azione, aiutato dal capo gruppo che ogni singola volta gli svelava tutti i segreti per riuscire a fregare facilmente le persone. Nel gruppo ricopriva il ruolo di esca. Non doveva mentire, perché quello non gli riusciva benissimo, ma essere solo se stesso, come gli suggerì Kaleb. E a quanto pare quel metodo funzionava dal momento che la gente si fidava ciecamente di lui, del povero orfano cresciuto da un uomo di sani principi come Ray. Nessuno aveva dubbi sulla bontà delle sue intenzioni e quindi quella sorta di doppia vita con il tempo divenne sempre più semplice da affrontare. Bastava soffocare il senso di colpa la notte, prima di andare a dormire, per riuscire a conviverci il resto del giorno. O almeno era quello che continuava a ripetersi tutte le volte in cui, sfilando alle spalle delle persone troppo occupate nell’intento di accaparrarsi la merce migliore in vendita al mercato, tagliava il fondo delle loro bisacce con la punta di un coltello per estrarne qualsiasi cosa vi trovasse o quelle in cui sorrideva alle donne e scambiava con loro due chiacchiere mentre un compagno del gruppo si occupava di derubarle. Kaleb non si accontentava mai e le sue mire ben presto si estesero dal mercato alle bettole, dalle bettole alle case, procedendo in quel circolo vizioso ed inarrestabile dal quale Iliham, volente o nolente, non riusciva ad uscir fuori. La sua doppia identità l’aveva talmente risucchiato da privarlo anche del privilegio dei sonni, così, quasi ogni sera, non appena Ray si chiudeva nella sua stanza, Iliham sgattaiolava fuori e si allontanava dalla fattoria per raggiungere il villaggio e trascorrere molte ore in compagnia del suo nuovo gruppo di amici, assaporando i primi piaceri e i vizi della vita di un uomo. Conobbe il gusto dell’alcool e la piacevole adrenalina data dal gioco d’azzardo, sperimentò molte cose ma non si offrì mai il capriccio di una donna.
Con il trascorrere del tempo il figlio dei barbari sviluppò oltre ad un’innegabile forza – dovuta agli allenamenti che non aveva comunque messo da parte e all’aiuto che continuava ad offrire a Ray tutte le sere – anche una notevole prestanza fisica. I tratti del suo volto da morbidi e infantili divennero definiti e mascolini e molte delle ragazze del villaggio se ne accorsero, ma lui non sembrava mai prestarvi troppa attenzione perché nella sua mente e nel suo cuore non vi era altro spazio se non per Kyra. La dolce ragazzina dagli occhi d’argento che di tanto in tanto lo spiava, di nascosto, da un albero nei dintorni della fattoria e che poi attirava la sua attenzione con un sassolino gettato nella sua direzione, per invitarlo a seguirla nel folto. Le ore in sua compagnia correvano come cavalli al galoppo e ogni volta sembravano non bastargli mai. Erano il suo momento di libertà. Quello in cui non era costretto a mentire a nessuno..perché le parlava di tutto e Kyra non lo giudicava mai.
Fu proprio la spensieratezza data da quei momenti ad alimentare in lui l’angoscia.
Sapeva di non essere nel giusto e sapeva che non era quello il genere di vita che Ray avrebbe voluto per lui, ma tutte le volte in cui tentava di farlo presente a Kaleb il ragazzo dagli occhi verdi gli rispondeva che in realtà era nato per intraprendere quel tipo di vita. Che si trattava del suo destino, anche se Iliham, nel profondo del suo cuore, sapeva che quella non era la verità.
E a tradirlo ci pensò il rimorso. Ray era sempre riuscito a leggere dentro l’anima delle persone ma in particolar modo a farlo con la sua. Quello sguardo di ghiaccio era divenuto troppo torbido, troppo inquieto per il vecchio uomo che da anni aveva imparato ad individuarne ogni sfumatura da riuscire a credere anche solo un minuto di più alle sue bugie. Quando poi trovò un piccolo mucchio di gioielli e cianfrusaglie nascosto sotto il letto di Iliham, un giorno, tutti i dubbi si dissiparono nel sapore terribilmente amaro della consapevolezza.
Una notte, apparentemente simile a tutte le altre, il ragazzo uscì come di consueto dalla sua stanza e si mosse con cautela nel buio della casa per raggiungere la porta. Ma non fece nemmeno in tempo ad avvicinarsi all’uscita che un manrovescio andò a colpirgli direttamente la faccia. Durò una frazione di secondo ma il collegamento a Marbh fu inevitabile. Eppure a fronteggiarlo stavolta non vi era la montagna ma il vecchio che l’aveva cresciuto e che in quel momento ricambiò il suo sguardo sbigottito con un’occhiata ostile.
«E’ così che porti a pascolo le pecore? Seguendo il gregge?»
«Non capisco a cos..» Sbam. Un altro schiaffo gli arrossò la guancia.
«E’ così che ripaghi le mie fatiche? Prendendoti gioco di me? Sarò pure vecchio ma non sono ancora rintronato!» la sua voce era colma di rabbia. Non lo era mai stata prima. Aprì il lenzuolo che aveva raggomitolato fra le mani e un tintinnio invadente riempì il silenzio della casa. Il frutto dei suoi numerosi furti ora lo adocchiava da terra, quasi a volergli ricordare quanto fosse grande la dimensione del suo sbaglio. Non riuscì ad aprir bocca e allora Ray lo fece al posto suo.
«Cos’è? Assieme al senno hai perso anche la parola? Oppure…» la voce di Iliham gli impedì di portare a termine quell’accusa.
«L’HO FATTO PER TE! L’ho fatto solo per te..» e mentre i suoi occhi di ghiaccio scappavano in direzione del pavimento quelli di Ray cominciarono a bruciare, gonfi di lacrime ma ancor più di una tangibile mestizia.
«Non c’era bisogno di arrivare a questo punto, dannazione! Avremmo potuto cavarcela anche da soli…»
«Ah si? E come?»
«Con le nostre forze, per esempio, come abbiamo sempre fatto! Sono vecchio e fragile ma sono ancora in grado di offrire aiuto. Perché non me ne hai mai parlato? Perché non ti sei sfogato con me? Perché continui a chiuderti dietro le tue maschere ragazzo mio? Perché continui a farti del male in questo modo? Non è già abbastanza quello che hai dovuto patire?»
«E tu che ne sai di quello che ho dovuto patire? Tu non sai niente di me, niente del mio passato. Sei solo un vecchio burbero e solitario che non è mai riuscito a stringere rapporti con nessuno al di là di un gatto antipatico e di un povero orfanello che, essendo molto più sfortunato di te, è riuscito a rendere più sopportabile il pensiero della tua miserabile vita!» l’aveva ferito. L’aveva ferito seriamente con quelle parole e forse se ne era reso conto troppo tardi.
«Mi..mi disp..» «No! Hai ragione, hai perfettamente ragione. Sono sempre stato un gran codardo. Ho sempre avuto paura di legarmi a qualcuno nel timore di non riuscirlo a tenere stretto a me ma poi sei arrivato tu, tra capo e collo, e mi hai cambiato la vita. Tu mi hai cambiato Iliham. Mi hai reso un uomo migliore e mi dispiace di non essere la persona che avresti sempre voluto al tuo fianco, di non averti rimboccato mai le coperte o offerto il calore di una carezza. Mi dispiace se il destino ti ha concesso questo vecchio burbero anziché un padre o una madre, ma non sempre ci viene offerta la possibilità di scegliere nella vita…alcune volte le cose capitano e non possiamo far altro che accettarle per quello che sono, o almeno provarci.» E a quel punto lo sguardo di ghiaccio del ragazzo divenne acqua. Si strinse con forza a lui senza riuscire a controllare il pianto che derivò a seguire quella stretta. Liberò tante lacrime per tutte le volte in cui, in quei lunghi anni, non l’aveva mai fatto. «Tu non sei un ladro»
«E tu non sei burbero…non tantissimo almeno.»
In quell’abbraccio offrì tutto, perfino l’anima.

___ ☾ ___


An Fear – L’Uomo



Nuovi anni trascorsero nella placidità della quiete. Iliham era tutto fuorché un ragazzino ormai: i capelli non apparivano più corti e scapigliati come un tempo, ma lisci e lunghi fino all’altezza delle spalle, di un biondo tanto chiaro che alla luce del sole splendevano come se avessero voluto risucchiare a sé tutta la luminosità di quei raggi ed offrire alla sua figura la parvenza di un colore definito. La distesa diafana dei muscoli e della carne che li ricopriva veniva interrotta solo dall’intensità del suo sguardo cristallino che in tutti quei cicli di Luna non era mai cambiato, a differenza del resto. Vi erano le stesse ombre a sporcarne la superficie, di tanto in tanto, e ad impedirgli di mostrarsi davvero per quel che era se non dinanzi agli unici occhi che sapevano vedere anche senza guardare, capire anche senza chiedere. Ray, così come il figlio dei barbari, era cresciuto a sua volta. Gli anni ne piegavano spalle e schiena, irrimediabilmente ricurvi in avanti, come se trascinasse di continuo un peso, obbligandolo a sorreggere la sua camminata incerta con l’aiuto di un bastone che lo stesso Iliham aveva realizzato per lui tempo prima. Era lui ad occuparsi di quasi tutto il lavoro nella fucina ormai, quella che aveva deciso di ripristinare una volta abbandonata l’instabilità della vita di strada e del mestiere del ladruncolo, acquistando nuovi strumenti e procurandosi altro materiale per mettere in pratica tutti gli insegnamenti che il vecchio, nel corso di quei lunghi anni, gli aveva concesso senza remore. La fattoria, così, giorno dopo giorno, risorse dalle sue stesse ceneri, anche grazie all’aiuto di Kyra che un pomeriggio, anziché restare dietro l’abbraccio del folto, fu invitata dal giovane uomo ad attraversare l’ingresso della casa e a conoscere Ray di persona, il quale, la sera stessa, al calar del sole, aveva risposto all’occhiata profonda di Iliham rivolta alle spalle della ragazza che si allontanavana con un sorriso sardonico. Anche lei, come tutti gli altri, era cresciuta. Di certo non appariva più come la bambina che era stata allo sguardo di ghiaccio del figlio adottivo dell’artigiano perché, anche se le sensazioni che gli suscitava erano le stesse, ogni cosa veniva intensificata da un desiderio e da un trasporto che Iliham non aveva mai avuto modo di provare prima, alimentati non solo dalle curve femminee di quel corpo pienamente sbocciato nel fulgore dei suoi anni ma anche dalle tenerezze che di tanto in tanto si scambiavano, di nascosto, sotto gli occhi della foresta.
«Iliham?» lo sguardo argentato della ragazza in quel momento era proiettato in direzione di un ammasso biancastro di nuvole. Erano entrambi stesi a terra, uno con i piedi rivolti da un lato e una dall’altro. Solo le loro guance aderivano in quell’incastro di corpi differenti sorretti dalla piacevole frescura dell’erba sottostante.
«Mh?» le fece eco un verso roco e basso.
«Promettimi che durerà per sempre.»
«Cosa?»
«Questo» aveva appena voltato il capo per stampargli un bacio tenue sulle labbra. Le sue custodivano in sé il gusto intenso e dolce di una fragola.
«Sai che non posso farlo...»
«Perché no?»
«Perché niente dura così a lungo, Mo Rùn.» Quel soprannome le faceva venire i brividi ogni singola volta. O forse era la sua voce così calda e involontariamente sensuale a provocarli.
«Vuoi dire che un giorno smetterai di pensarmi e ti innamorerai di un’altra donna?» sembrava davvero terrorizzata all’idea di perderlo.
«Non credo che potrei mai smettere di pensarti..e in ogni caso chi ti ha detto che ti amo?»
«Questi» cominciò ad accarezzargli gli occhi con le dita, sfiorando le sue palpebre sottili. Era vero. La amava. Incondizionatamente. Il suo sguardo era fin troppo limpido da riuscire a negarle quella sicurezza.
«E tu?»
«Io cosa?»
«Mi ami?»
«Sei la mia Luna. Certo che ti amo, ti amo da sempre.»
Silenzio. Gli occhi dell’irlandese per un istante sembrarono assorbire in se tutta la luce del sole. Poi Kyra riprese a parlare.
«Se non puoi promettermi che durerà per sempre, allora promettimi che durerà il più a lungo possibile»
«Te lo prometto» E con due sorrisi pieni stampati sulle labbra tornarono ad immaginare le più svariate identità dietro le forme bislacche delle nubi che li adocchiavano dall’unico fazzoletto di cielo visibile fra le fronde degli alberi. Quel giorno Kyra gli regalò un ciondolo, semplice, grezzo ma estremamente importante. Rappresentava il movimento rotatorio dei pianeti al cui centro vi era una pietra azzurra che simboleggiava la sacralità della Luna. Kyra gli aveva fatto promettere di non privarsene mai perché solo così la Luna avrebbe potuto proteggerlo. Lui mantenne la parola.
I giorni trascorrevano sereni e pacifici mentre la primavera faceva spazio all’incombenza di un’estate che, secondo i racconti dei vecchi del villaggio, quell’anno, l’anno del suo diciottesimo compleanno, sarebbe stata più torrida dei precedenti.
L’aria, tra i vicoli di Bjorg, era a dir poco irrespirabile. Tutti cercavano un po di penombra nei punti più disparati del piccolo paese. Tutti, compreso Iliham che, malgrado non amasse più frequentare così spesso il villaggio, era costretto a raggiungerlo per portare a termine il lavoro di Ray e sbrigare le consegne al posto del vecchio che ormai, preda di acciacchi e sofferenze continue, non si spingeva mai troppo oltre il terreno della fattoria. Fu proprio in un giorno d’estate simile a molti altri che, mentre si trovava sulla via del ritorno, una volta svoltato l’angolo di un vicolo, scorse il profilo di una mendicante seduta a terra e accartocciata su se stessa come un foglio incartapecorito. Un mantello dalla trama leggera e marrone ne ricopriva per intero le fattezze e la mano che spuntava oltre il tessuto, aperta con il palmo rivolto verso il cielo e stesa in avanti, sembrava dello stesso colore di quella manta, solo molto più consumata e attempata.
«Carità, carità per una povera vecchia..» la sua voce era arrochita e debole, contorta da grumi di catarro che le impedivano di respirare regolarmente. Dopo qualche attimo di indugio Iliham decise di avvicinarsi alla mendicante, di estrarre una moneta e di piegarsi di fronte a lei per porgergliela sul palmo ben disteso di quella stessa mano che, l’istante successivo, con velocità inaspettata, si strinse energicamente attorno al suo polso per sbilanciare la figura di quel giovane dalla muscolatura massiccia nella sua direzione. Dove aveva trovato tutta quella forza? Si domandò il nordico, che la fissava con sguardo incredulo e che tentava a tutti i costi di scorgere le linee del suo volto nascoste dall’ombra del cappuccio. Non ci volle molto perché l’altra lo accontentasse...e così la riconobbe immediatamente: si trattava di Shannon, la Bean Feasa della Cerchia - o almeno lo era ai tempi in cui lui fuggì dalla fossa - figlia di Sherazar e custode del Dono. Libera, come lo era lui in quel momento, cominciò a fissarlo con un’intensità non indifferente, di chi vuole scavare a fondo nello sguardo altrui pur di raggiungerne l’anima. Come è possibile che, dopo tutti questi anni, sono riuscito ad intrecciare nuovamente la mia vita a quella della sacerdotessa di Dorchadass, un tempo giovane, forte, bella e ora vecchia, brutta e apparentemente fragile, nello squallore di un vicolo dimenticato da tutti e lontano dalla Fossa? Si domandava tacitamente lui. Si trattava solo di un’incredibile coincidenza? La voce di Shannon riemerse dal nulla, grave e profonda, come lo era quella della madre prima che le Tenebre la portassero via.
«Fuar, Dùn dar Talakheen...sopravvissuto alla Grande Notte. Madre aveva ragione. Sherazar sempre ragione. Impronte di Lupo hanno salvato tua vita, non è così?» Iliham cercò in tutti i modi di divincolarsi da quella presa ma, malgrado la notevole forza sviluppata in tutto quel tempo, Shannon aveva più energia di lui, anche se quella potenza non sembrava giungere direttamente da lei ma da un qualcosa che la circondava e che l’irlandese non riusciva a distinguere. Alla fine si arrese e fece sì col capo, proprio come accadeva quando era ancora un bambino muto e diffidente.
«Mhmmmm» elevò una nenia inquietante al cielo, un verso monotono e stridulo che continuò a ripetere per più di un minuto prima di tornare in se, con il polso di Iliham ancora stretto in una mano.
«Sacrificio necessario. Sangue per sangue. Vita per morte. Questa essere legge del Nostro Dio. Tu sai. Laila sapeva, così tuo destino può compiersi.»
«Di che stai parlando? Cosa c’entra Laila? Cosa le è successo?» Shannon per un attimo parve palesemente stupita di poter udire il suono della sua voce. Poi però cominciò a ridere e a mostrare la sua bocca sdentata, piegata in una smorfia malvagia.
«Tu ancora credi. Ancora speri. Ma sangue chiama altro sangue e solo morte può ripagare vita. Dorchadass bramava tua ma Marbh offerto quella di una meretrice. Sento ancora sue urla...invocava tuo nome come disperata. Dorchadass furioso da Grande Notte. Prossima Luna piena reclamerà tributo. Nuovo sangue macchierà terra. Tuo sangue..»
Sentenziò. E assieme a lei perfino l’inferno diede l’impressione di ridere in quel momento.

Inferno. Ecco come si sentiva in quell’istante. Un blocco di ghiaccio immerso in una vasta distesa di lava ribollente e rossa. La consapevolezza di quella perdita gli causò un male incredibile all’altezza del cuore. Tutto il corpo gli andava a fuoco, ma non di quel genere che avvertiva in presenza di Kyra. Era un calore che bruciava davvero la pelle, che feriva ed infieriva sulla cicatrice vistosa di un’idea che non aveva mai trovato alcuna conferma prima di allora. Laila era morta. E la cosa peggiore era che Iliham nel profondo lo sapeva da sempre ma non aveva mai voluto accettarlo, o potuto, fino a quel momento. Non risparmiò nemmeno una briciola della rabbia e dello sconforto che provava alla foresta che in quegli stessi istanti stava attraversando come una furia, in piena notte e con le vene che pulsavano tanto intensamente da rischiare di esplodere tutte da un momento all’altro. Gealach lo seguiva dall’alto, assisa e immobile sul suo trono luminoso, tonda come un occhio completamente sgranato sul nulla apparente di un cielo blu come il più profondo degli oceani. Karinhold scricchiolava sotto la pesantezza delle sue falcate. Aveva deciso di tagliare per la foresta anziché percorrere il sentiero principale, perché raggiungere la fattoria in quello stato significava far prendere inutilmente uno spavento a Ray..e non era certo che il cuore del vecchio sarebbe riuscito a sopportare anche quel colpo. La vita della donna che si era presa cura del figlio dei barbari le era stata strappata via con brutalità in cambio della sua e lui non aveva potuto far nulla per impedirlo. Quel pensiero lo fece impazzire e gonfiò i suoi occhi di una luce pericolosamente intensa che aveva lo stesso colore della vendetta. Proprio mentre stava tentando di ripescare fra i cassetti della memoria il ricordo del loro ultimo momento assieme lo rivide. Un muso immane e ricoperto di peli chiari sbucava dal centro esatto di un cespuglio. Le due gemme dorate che lo adornavano stavano puntando proprio nella sua direzione. Capì che si trattava del lupo incontrato anni prima in quella stessa foresta fin da subito, ma comprese anche che vi erano alcuni dettagli a renderlo diverso dall’esemplare che, quando era ancora un bambino fragile e selvaggio, decise di risparmiargli la vita. L’animale che in quell’istante stava ricambiando il suo sguardo dubbioso e sorpreso era molto più grande e massiccio di allora, visibilmente possente e altrettanto visibilmente..quieto. Non vi era lo stesso lampo di furia intravisto un tempo in quegli occhi luminosi, tanto che nemmeno l’accenno di un ringhio fuoriuscì dalla sua bocca. Sembrava contemplarlo come chi fa quando rivede una persona dopo tanto tempo e cerca di coglierne gli inevitabili cambiamenti. Da quelle gemme trasparivano una maturità ed una fierezza non indifferenti. Condivisero un lungo minuto, forse anche due, con gli sguardi immersi vicendevolmente l’uno nell’altro. Fu il lupo a spezzare il legame. Cominciò ad offrirgli un fianco e a costeggiare la prima fila di alberi della piccola radura nella quale era finito senza nemmeno rendersene conto prima di voltargli le spalle e dissolversi nell’oscurità. Lo seguì con gli occhi fino all’ultimo istante e nell’attimo in cui si spostò per cercare di individuare la direzione appena intrapresa dal lupo andò a scontrarsi contro un corpo sottile e sinuoso.
«Hey!»
«E tu che ci fai qui?»
«No..che ci fai tu qui! Dovresti essere a casa da un bel pezzo..ma che hai fatto? Sembri sconvolto!»
«Cos’è? Adesso vuoi anche controllarmi?»
«Iliham ma che ti prende? Ti prego parlami, mi stai facendo preoccupare!»
«Lascia perdere..» era furioso, lo si vedeva chiaramente dalla sua espressione.
«No che non lascio perdere! Non ti lascio andare finché non mi dici che diavolo ti prende!»
«Non mi va di parlarne Kyra... e adesso togliti di mezzo!»
«No-oh! Io non mi muovo da qui!» Gli si piazzò davanti cercando di anticipare ogni suo passo e di fermarsi nel punto che lui avrebbe voluto raggiungere, con un’espressione risoluta sul volto di porcellana...quando faceva la cocciuta diventava, se possibile, perfino più bella. Lui sbuffò dalle narici con foga. Tutte le volte in cui lo faceva poteva essere o incredibilmente arrabbiato o incredibilmente bramoso..lei lo sapeva bene e quell’impeto, quella furia animalesca mista al desiderio che ogni singola parte di quel corpo statuario gridava a gran voce, le provocò un brivido. Forse in quel momento provava entrambe le cose. Si trattava di una miscela tanto intensa da farle scoppiare il cuore perché non l’aveva mai visto così imbestialito e allo stesso modo in cui la cocciutaggine rendeva amabile lei, l’ira rendeva immoralmente attraente lui.
«Ti prego..» la sua voce era bassa, soffocata da un qualcosa che riconobbero entrambi. Gli si avvicinò e tentò di aggrapparsi alla sua blusa bianca, arricciandone la stoffa tra i pugni. «...parlami Iliham, dimmi cosa ti è successo. Non tenerti tutto dentro..»
«Ho detto che adesso non ho voglia di parlare...» anche la voce del figlio dei barbari divenne incerta e ancora più roca del solito.
«Allora se non vuoi parlare, raccontamelo in un altro modo» Lo invitò, socchiudendo gli occhi e azzardando un movimento che fu solo il preludio di una notte pregna di passione e rabbia repressa.
Quella notte si unirono per la prima volta. In quella notte Iliham divenne un uomo.

Non appena Kyra si addormentò, nuda e appagata, al suo fianco, lui cadde preda di un sonno agitato. E sognò. Si trattava sempre dello stesso incubo. Quello che da tempo non si era più affacciato sulla soglia del suo inconscio e che lo rendeva il protagonista di una caccia sfrenata durante la quale rivestiva i panni di un lupo. Anche quella volta rincorse qualcuno e anche quella volta avvertì ogni cosa che lo circondava con la strabiliante percezione di un predatore notturno. Ma in quell’occasione accade qualcosa di diverso. Nell’attimo in cui riuscì a dimezzare le distanze dalla schiena della sua vittima anziché perderla di vista la azzannò, infilzandone le spalle con gli artigli e dilaniandone la gola con i denti. Quel corpo cadde a terra con un tonfo secco. Si cibò delle sue carni con feralità brutale e leccò il suo sangue direttamente dall’arteria che lo spingeva fuori prima di lasciarsi distrarre dalla vista. Incrociando lo sguardo della sua preda capì finalmente di chi si trattava. Gli occhi che lo fissavano con impotenza da là sotto erano gli occhi di Marbh..eppure il riflesso che gli stessi gli rimandarono indietro non aveva le sembianze del muso di un lupo, ma quelle del volto di un uomo. Il suo.
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29/06/2013 14:15

La Profezia



Tutto ciò che accadde a seguire quella notte fu solo la conseguenza diretta di una girandola di eventi inarrestabile. La quiete dei giorni precedenti divenne ben presto un vago ricordo ed un mese trascorse nella frenesia inafferrabile di un qualcosa di oscuro che attendeva in silenzio il momento più congeniale a se stesso per presentarsi. Gli unici attimi di spensieratezza che gli rimanevano erano costituiti dalle ore trascorse in compagnia di Kyra quando, non appena la sera si faceva incalzante, si recava nei pressi del villaggio per raggiungere la bettola e le sue labbra, nella perfetta alternanza di notti dolci e ardenti durante le quali finirono per appartenersi l’un l’altro in un modo talmente profondo e intenso da apparire quasi disumano. Ma ben presto anche quella magia gli venne strappata via.
Accadde in una sera di torrida estate. L’acciottolato sottostante era ancora caldo per il sole assorbito durante tutto l’arco del giorno e le brevi ventate d’aria fresca offrivano solo una misera fonte di refrigerio ai pochi passanti che attraversavano, proprio come lui, il labirintico reticolato delle strade di Bjorg. Aveva appena portato a termine una commissione per conto di Ray quando dal fondo di un vicolo avvertì un urlo. Anche se a dire il vero più che un urlo quello risuonò dentro le sue orecchie come un lamento…il gemito soffocato di una donna. Avrebbe potuto proseguire per la sua strada e fingere di non essersi reso conto di nulla ma la noncuranza era solo uno dei tanti tratti causati dal suo sangue nordico che, a differenza del suo aspetto, non aveva ereditato. Deviò all’interno del vicolo e si lasciò inglobare dall’ombra informe che ottenebrava ogni cosa, nascondendo perfino i volti delle due sagome vicinissime tra di loro e di cui una si trovava a stretto contatto con il muro alla sua destra. Si trattava di una donna e, a giudicare dai versi giunti dall’altra parte, era chiaro che a fronteggiarla vi era un uomo che si stava approfittando di lei e del suo corpo..o almeno quello fu ciò che l’irlandese immaginò. Non si rese conto del come ma se un attimo prima li stava osservando da una certa distanza un attimo dopo si ritrovò con la gola dello sconosciuto stretta in una mano. Lo aveva appena sbattuto contro la parete opposta, strappandolo alle grazie della ragazza che inizialmente non emise un fiato. Tutto ciò che voleva fare era strangolarlo, fargli del male, preda di una furia cieca dalla quale non si era mai lasciato dominare prima di allora ma che, ne era certo, aveva sempre fatto parte della sua vita. Quando il primo pugno andò a schiantarsi sulla faccia dell’individuo con forza efferata, nemmeno si rese conto del suono stridulo che provenì dal naso dell’altro o del bruciore alle nocche che lo investì solo al termine di quella sequenza di colpi implacabili diretti verso il volto del malcapitato senza una ragione. Anzi…a dire il vero una ragione c’era e stava tutta nella ripresentazione concreta di un ricordo appena tornato a galla dalle memorie del tempo. Aveva a malapena sei anni quando vide Laila concedersi ad un uomo solo per salvargli la vita e anche se la situazione era del tutto diversa il gusto del riscatto in un primo momento sembrò comunque piacevole. La faccia dello straniero in seguito gli si mostrò nella pienezza orripilante della violenza appena subita..emaciata, gonfia e rossa come il sangue che gli colava copiosamente dal naso. Iliham, che ancora teneva una mano sotto il collo taurino dell’individuo, respirava a stento, scosso dalla potenza di un respiro affannoso che sgonfiava e gonfiava il suo torace di continuo e che gli faceva danzare animatamente le spalle dall’alto verso il basso.
«Sei impazzito?Razza di idiota si tratta di una lurida prost…» la possibilità di concludere la frase non gli venne concessa dal momento che il figlio dei barbari tornò ad infierire sul suo orribile muso pestato a sangue. Lo colpì, ancora e ancora, con un impeto che ad ogni istante acquistava sempre più ferocia, così che i pugni inferti azzittirono completamente l’uomo, ormai quasi del tutto esamine e sorretto a stento dalla sua morsa. Una voce si intersecò fra i rumori generati da quel pestaggio violento. Era la voce della donna alle loro spalle. Una voce carica di terrore e orrore.
«SMETTILA! Ti prego smettila…così lo ammazzi!» urlò fra un singhiozzo e l’altro. E fu quell’urlo ad arrestare la corsa dell’ennesimo colpo già pronto a raggiungere il naso rotto dello sconosciuto.
Lo fece perché quello non era l’urlo di una semplice donna, ma la preghiera accorata della Sua donna. Di Kyra. Si voltò e non appena abbandonò la presa dal collo altrui lo sconosciuto cadde a terra, respirando a fatica.
«I-i-iliham?» sarebbe stato bello se l’avesse scambiato per qualcun altro, pensò, ma non vi fu possibilità d’errore nell’attimo in cui il ragazzo si girò completamente nella sua direzione, fissandola in silenzio con un’espressione vuota e insormontabile. Cercò di abbassarsi la gonna e di darsi una sistemata come meglio potè ma ben presto capì che tentare di sminuire la gravità della situazione non sarebbe servito a nient’altro che a peggiorarla. Il silenzio che iniziò a gravare su di loro li condusse allo stesso risultato di una lenta agonia.
«Visto che non hai portato a termine il tuo lavoro ridammi i miei soldi, meretrice che non sei altro!» E così la voce dell’uomo a terra lo disgregò. Al suono di quelle parole Iliham si voltò come una furia in direzione dello sconosciuto e caricò un altro pugno che però raggelò a mezz’aria.
«Se non hai intenzione di riceverne ancora ti consiglio di sparire dalla mia vista..adesso!» L’uomo non se lo fece ripetere due volte, dilenguandosi a stento dall’altra parte del vicolo. Il figlio dei barbari non riusciva nemmeno a guardarla in faccia. L’argento degli occhi di Kyra andò a fondersi, miscelato all’acqua delle pesanti lacrime che li riempivano.
«Iliham guardami, ti scongiuro!» tentò di accarezzarlo in volto ma lui la strattonò con forza.
«Non provare nemmeno a toccarmi..» la sua voce era fredda, innaturalmente gelida.
«Mi-mi dispiace…tu non sai..» fece no con la testa, singhiozzando come una ragazzina.
«..Da quanto tempo?»
«Tu non sai quanto mi dispiace..»
«DA QUANTO TEMPO?» sbraitò, anche se la collera aveva già lasciato il posto all’amarezza.
«Da..d-da..tu non puoi capire, ho dovuto farlo!»
«Lo eri già quando ci siamo conosciuti?»
«L’ho fatto per la mia famiglia..per mio fratello, per mia sorella..noi non avevamo soldi e..»
«Lo eri già..» sussurrò a se stesso, con rassegnazione evidente.
«Non avevo altra scelta!»
«C’è sempre un’altra scelta..» sembrava non avere più voce per quanto fu roco e basso quel mormorio. Era sfinito. Non aveva più forze per far niente. Nemmeno per gridare.
«L’ho fatto solo per i soldi, solo per quelli! Non ho mai provato niente con..con loro. Mai! Solo con te..c’eri solo tu Iliham. Sei sempre stato tu..solo tu…e quando ti ho detto che ti amavo non si trattava di una bugia. Era tutto reale per me... lo è ancora!» Non voleva ascoltare una sola parola in più se giunta da quelle labbra. Le diede le spalle e cominciò ad incamminarsi nella direzione dalla quale era giunto.
«Dove stai andando?» Lei cercò di superarlo per tentare in tutti i modi di tagliargli la strada.
«Ti prego…Iliham ti scongiuro, non andartene..»
«Dimmi una sola ragione per cui dovrei restare»
«Perché sono il tuo cielo e le tue stelle. Perché mi ami. L’hai detto tu questo»
«Sì, quando ancora non sapevo come stavano le cose..tu non hai fatto altro che mentirmi per tutto questo tempo!» era disgustato all’idea che quel corpo fosse stato sfiorato dalle mani di un altro uomo, baciato dalle labbra perverse di chissà quanti sconosciuti.
«L’ho fatto solo per te, per proteggerti…che altro avrei dovuto fare?»
«Dirmi la verità, per esempio? Avremmo potuto trovare una soluzione insieme, ti avrei aiutato..»
«Dio, quando fai così sei proprio uguale a lui…a Ray!»
«Sempre meglio che essere come te..»
«..disse il ladruncolo che ha derubato mezza città..»
«..sì, lo stesso che poi ha preso una scelta e che ha deciso di cambiare, ma soprattutto quello che non ti ha mai mentito, nemmeno una volta!» allontanò gli occhi dai suoi, puntando la strada che lo attendeva e cercando di avanzare nonostante tutto.
«Provi ribrezzo per me..non è così? E’ perché sono una meretrice? Non lo era anche la donna che ti ha cresciuto, dopotutto?» non avrebbe dovuto dirlo. Se ne pentì l’istante successivo, anche se comprese che era troppo tardi per rimediare. Eppure lui sembrava stranamente calmo, fin troppo, rivestito di una quiete che quando raggiungeva quei livelli diveniva più pericolosa della rabbia.
Estrasse da una tasca qualche moneta e gliela lanciò ai piedi. Nei suoi occhi di ghiaccio c’era nient’altro che un profondo ed ineluttabile vuoto.
«No. E’ perché sei una bugiarda. Questi sono per tutte le volte in cui ti sei concessa a me. Buona fortuna, Kyra» si stava allontanando…e lei non potè far nulla per fermarlo. Non solo perché quel corpo la sovrastava in forza e massa ma anche perché sapeva di aver sbagliato tutto. Cadde in ginocchio, scossa dalla violenza di un sussulto. Aveva appena perso l’unica cosa pura e vera della sua insulsa vita, senza sapere che ben presto la stessa sorte sarebbe toccata anche a lui.

Il cortile esterno era fin troppo silenzioso per i suoi gusti, immerso in un’atmosfera talmente quieta che ogni passo guadagnato dal figlio dei barbari non faceva altro che rimbombare forsennatamente nei dintorni, proprio come quello di un gigante che aveva deciso di attraversare la terra. Qualcosa non andava. Lo sentiva nell’aria, come se la natura avesse voluto avvertirlo in tutti i modi del pericolo incombente alle sue spalle. Tre figure cupe e minacciose apparvero di punto in bianco nel nulla apparente che circondava la fattoria di Ray. Se ne rese conto nell’attimo in cui incrociò il loro riflesso attraverso la superficie lucida di uno scudo appoggiato contro la ruota del carro – stranamente rovesciato a terra su di un lato. Anziché voltarsi decise di proseguire cautamente in avanti, per fingere di non essersi reso conto di nulla. Ma quando raggiunse il carro con uno spostamente che da apparentemente distratto divenne rapido afferrò lo scudo e se lo piazzò dietro la schiena a protezione del collo, scivolando dietro il carro che divenne ben presto una barricata improvvisata. La freccia scoccata da uno dei tre uomini non lo colpì per un soffio. Erano vestiti di pelli miste e di un’aria tremendamente selvaggia che Iliham non faticò a riconoscere, dal momento che l’aveva intravista solo sugli uomini di Marbh, malgrado fossero passati diversi anni.
Ciò che avvenne negli istanti successivi fu il riflesso diretto di una necessità che animava tutti allo stesso modo, dagli animali agli uomini, e che quindi coinvolgeva anche lui: sopravvivenza. Il dardo conficcato a terra finì ben presto sotto una manica della sua blusa, nascosto dalla stoffa che ne celava il pericolo. Girò cautamente attorno al carro ma venne ben presto raggiunto dal primo dei tre guerrieri che aveva deciso di allontanarsi maggiormente dal folto e di raggiungerlo. Una scarica di colpi giunti dal forte della lama altrui andò ad abbattersi al centro esatto dello scudo che sorreggeva con la destra. Fortunatamente quello era composto dal miglior metallo di tutta l’Irlanda e realizzato dal più grande forgiatore dell’Ulster o nel caso contrario non sarebbe mai riuscito a parare quei colpi e ad attutirne l’energia con cui il guerriero li caricava forsennatamente. Il fendente che vide arrivare divenne ben presto la sua sola possibilità di salvezza. Approfittò del fatto che il torace dell’uomo rimase scoperto da quell’attacco per chinarsi in avanti, abbassare il braccio sinistro, farsi scivolare sulla mano la freccia e infilzare la gola del guerriero con la cocca, mentre la testa sorreggeva lo scudo posizionato sulla nuca come un guscio e che, per la potenza con cui l’altro aveva caricato il fendente, vibrò intensamente per più di qualche istante. La sua seconda morte. Rivoli di sangue gli sporcarono la faccia, schizzando dalla carotide del guerriero come spruzzi d’acqua da una fontana. Fu la vista e l’odore di quel liquido rosso rubino ad alimentare la concitata adrenalina che lo investì e che gli permise di non arretrare nemmeno una volta in risposta ai colpi del secondo guerriero che l’aveva appena raggiunto mentre l’altro, l’arciere, stava fissando la scena e il corpo dell’uomo che Iliham aveva appena fatto fuori con un’espressione furente sul volto. Di sicuro si aspettavano di liberarsi di lui nel giro di pochi istanti, ma non di incorrere nella complicazione offerta da una forza d’animo inaspettata. Il secondo guerriero, a differenza del primo, era molto più mingherlino e per questo anche molto più agile di lui. Se non avesse avuto lo scudo a difenderlo sarebbe stato colpito molto prima di quanto non avvenne quando il filo della bastarda impugnata dallo sconosciuto tagliò orizzontalmente l’aria raggiungendogli una spalla e causandogli un taglio superficiale ma fastidioso. Fu quel dolore, tuttavia, a nutrire la foga del figlio dei barbari, fu la consapevolezza del pericolo a rafforzarlo e fu proprio di quella, della forza data da un corpo massiccio consolidato dalla costanza di innumerevoli allenamenti e del lavoro nella fucina, che si servì nell’istante in cui sbilanciò il corpo del suo avversario per schiacciarlo sotto il suo peso e fargli perdere il controllo dell’arma. Ogni secondo era prezioso come l’oro e non ne perse nemmeno uno quando afferrò lo scudo, posizionandolo diagonalmente rispetto al terreno, e fracassò il cranio dell’uomo che soccombeva, intrappolato nella morsa delle gambe dell’irlandese strette attorno al suo bacino. Non sapeva come uccidere un uomo prima di allora. Ray gli aveva insegnato molte cose ma non quella. Gli aveva spiegato come difendersi più di una volta, simulando lo schema basilare di un duello con delle spade finte, ma cercò a più riprese di evitare di istruirlo all’arte del combattimento, forse perché il mentore aveva intuito piuttosto bene quanto pericoloso fosse quel ragazzo quando la ragione si ammutoliva e l’impeto dato dal più puro degli istinti gli abbracciava l’anima...proprio come stava succedendo in quel preciso momento. Eppure anche la foga imperiosa dei barbari che gli scorreva nel sangue richiedeva in cambio un prezzo da pagare. Si concentrò talmente tanto sulla vittima già morta sotto di sé da non rendersi conto della folle corsa intrapresa dal terzo guerriero – che nel frattempo aveva abbandonato l’arco per armarsi di un falcetto - nella sua direzione. Avvertì il suo fiato nauseabondo sul collo e il profilo grezzo e ricurvo dell’arma ad un soffio dalla gola. Comprese che la fine era giunta, che un uomo addestrato a tutt’altro che al combattimento – per quanto avesse appena dimostrato di possedere doti quasi innate e di apprezzare particolarmente e inconsciamente la lotta – non poteva sopravvivere un minuto di più alla furia omicida di tre guerrieri esperti. Sollevò lo sguardo in direzione della Luna piena che lo fissava dall’alto ed il pensiero che quella sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe visto lo rassenerò.
Evidentemente il destino aveva in serbo altri piani per lui, pensò, nell’istante in cui l’arma del guerriero cadde a terra ed un urlo disperato fuoriuscì da quella bocca. Non aveva fatto in tempo a voltarsi che l’uomo era già stato dissanguato dalle fauci taglienti di una bestia enorme dal pelo chiaro, reso peccaminoso all’altezza del muso ricoperto di sangue. Si trattava di un lupo, ma non di un lupo qualunque. Era il lupo che Iliham aveva già avuto modo di incontrare due volte nella sua vita e che molto probabilmente, si ritrovò a credere, viveva da talmente tanto tempo in quella parte della foresta divenuta ormai il suo territorio da voler proteggere, forse volutamente forse no, sia la sua vita che quella di Ray. Ray...il pensiero del vecchio lo strappò via dalla stasi con la quale stava contemplando la ferocia con cui il lupo infieriva sul corpo del guerriero. L’animale non alzò il muso per guardarlo negli occhi e allora Iliham si allontanò dai corpi degli uomini massacrati ai suoi piedi, armandosi di una delle loro spade, per raggiungere la casa.
Marbh lo stava aspettando da tempo. Lo comprese dall’impazienza con cui si rigirò l’impugnatura della spada tra le mani non appena lo vide apparire dietro l’angolo della fattoria, sul cortile che si affacciava dinanzi alla parte posteriore di quell’umile dimora. Non era cambiato di una virgola..o così sembrava. Era stato lui ad ordinare ai tre uomini appena massacrati di ucciderlo, era ovvio, ma dalla luce che intravide nei suoi occhi qualcosa gli diceva che sapeva che sarebbe riuscito a sovrastarli in qualche modo...come se attendesse il momento per scontrarsi con lui da tutta la vita. Dal profilo della bastarda gocciolavano lacrime di sangue. Iliham deglutì, ricacciando con repulsione il pensiero del corpo trucidato del vecchio. Non voleva crederci, non poteva, ma aveva capito perfettamente come stavano le cose..in ogni caso Marbh non gli permise di fare nient’altro che agire, a seguire un verso cupo e gutturale.
«Hòigh, Fuar» la parte di quella bocca che era stata risparmiata dalle fiamme si piegò, mostrandogli un sorriso macabro. La lotta che intrapresero era quanto di più simile ad una danza potesse esserci. Improvvisata e brutale, certo, ma incredibilmente bella, perfino nella disarmonica sequenza dei colpi inesperti giunti da parte del giovane irlandese. Ormai si equiparavano sia in massa che in forza e Iliham non fu mai costretto a piegare il capo verso l’alto per guardarlo negli occhi come un tempo. La lama dell’altro investì più di una volta la sua carne ma per sua fortuna mai in punti critici che l’avrebbero di sicuro sfinito e condotto ad una morte certa. Marbh era mille volte più capace e addestrato di lui a quell’arte ma vi era un dettaglio tra i tanti che probabilmente non aveva preso in considerazione. Iliham era molto più giovane e in forze di lui. Ogni suo movimento, malgrado la stazza imponente che apparteneva ad entrambi, era sempre più rapido e scattante..e quando il giovane figlio dei barbarì lo capì non fece altro che attuare la sola tattica che gli avrebbe concesso una misera possibilità di scampare alla brutalità del capo degli schiavi. Raramente attaccava, difatti, concentrandosi sulla difesa e parando di continuo i suoi colpi con lo scopo di farlo stancare il prima possibile. Trascorse molto tempo prima che anche la sua spada riuscì a ricavarsi una breccia nella difesa della montagna e a colpirlo ma infine ci riuscì...e con un lampo di amara consapevolezza Marbh crollò in risposta al tondo roverso, impreciso ma brutalmente letale, giunto da parte di Iliham e rivolto al suo fianco destro contro il quale affondò senza ripensamenti. La montagna cadde a terra con un tonfo pesante, abbandonando la presa dalla bastarda che rotolò a pochi metri di distanza. Eppure dei due quello più sorpreso sembrava Iliham, i cui muscoli delle braccia e delle gambe dolevano per la fatica. Era stremato e si trascinò a stento in direzione di Marbh, solo per osservarlo e assistere in silenzio a quella che divenne una morte lenta, probabilmente sofferta, ma carica di verità che Iliham, nei minuti seguenti, riuscì ad assorbire a stento.
«Tuo padre a quest’ora starà già festeggiando...» le parole si trascinavano a stento oltre quell’orrenda bocca «posso quasi sentire il cozzare dei calici e le grida di giubilo provenire dall’altra parte dei cancelli del Valhalla» sospirò «..attendono me» incurvando le labbra in un sorriso fiero e malevolo. Il figlio dei barbari non riusciva a capire cosa c’entrasse suo padre in tutta quella storia...perché aveva capito che non era a Ray che si stava riferendo.
«Quando ti ho visto la prima volta non mi sembrava vero...ero certo di aver estirpato del tutto la dannatissima discendenza di tuo padre..ma non appena vidi il simbolo di Grugnir sul tuo corpo non ebbi altri dubbi. Eri proprio tu, Fuar, secondogenito di E’amman, scampato ad una morte certa per miracolo, così come aveva predetto Sherazar tempo prima...e dire che non avevo mai voluto dare ascolto alle parole di quella vecchia veggente fino ad allora» un violento colpo di tosse lo investì.
«Quando trapassai da parte a parte il corpo di mio fratello provai una gioia incontenibile...ma la provai ancor di più quando sussurrai contro il suo orecchio che l’unico dei suoi figli rimasto in vita era divenuto cibo per vermi ormai. Credevo di aver finalmente distrutto tutti i membri del clan dei Talakheen..ma poi sei apparso tu, nella Fossa, e per me da quel giorno non vi fu più pace..» collane di sangue sgorgarono dalla sua bocca, macchiando il tappeto d’erba che li ospitava.
«Mi avevano detto che eri stato ucciso, passato a fil di spada dalla lama di tuo fratello Ualtar, la stessa con la quale aveva messo fine alla vita di tua madre..» la fronte di Iliham divenne una valle d’alabastro disseminata di piccole dune. L’azzurro incontaminato del suo sguardo brillava, ma non certo di gioia, né di sorpresa, quanto di una lenta e tormentata presa di coscienza.
«Quando ti vidi per la prima volta pensai subito a lei, a tua madre...tu hai i suoi stessi occhi»
Il figlio dei barbari non riusciva ad aprir bocca. Qualcosa di doloroso gli stava bruciando la gola.
«Ualtar era decisamente più esperto di te nel maneggiare la spada...eppure eccomi qui, agonizzante a causa di un ragazzino cresciuto in una fattoria sotto l’ombra di un vecchio fabbro...» sputò. Sangue e odio fuoriuscirono da quelle bocca mentre la sua voce si indeboliva sempre più.
«Sei stato tu a farlo? Sei stato tu ad uccidere mio fratello?» Iliham trovò la forza di reagire tutto d’un tratto, ma in quella domanda non vi erano, stranamente, sfumature d’odio quanto di un profondo rammarico...come se fosse dispiaciuto del fatto che Marbh avesse compiuto un gesto che spettava a lui. La verità era così brutale e insopportabile da comprimergli il cuore in una morsa.
«Sì» ringhiò con soddisfazione «ed è stato estremamente facile. Era abile e ben addestrato, certo, ma non aveva la tua grinta, non aveva il tuo coraggio, né il tuo attaccamento alla vita. Era un folle spregiudicato...proprio come mio fratello, tuo padre, e guarda dove li ha condotti la follia. Tu invece sei sempre stato come lei...» il petto della montagna si gonfiava d’aria a fatica mentre Iliham si rese conto di aver appena condotto sotto la falce dell’Oscura l’unico componente della sua vera famiglia che gli rimaneva: suo zio.
«Avremmo vissuto felicemente assieme...ma E’amman me la portò via, rendendola sorda e cieca..e tu sei colpevole della sua morte almeno quanto lo erano tuo fratello e tuo padre!» lo guardò negli occhi. Quelli di Marbh erano lucidi e l’unica traccia di vita che bruciava al loro interno stava per spegnersi da un momento all’altro. «Per questo io ti maledico, nipote: che tu possa vivere i giorni che ti rimangono preda di un senso di colpa insopportabile...e che questo senso di colpa ti conduca ad un’agonia lenta e ad una morte dolorosa..Dovrai imparare a convivere con questa certezza: tu sei proprio come tuo padre, tuo fratello e me..un Talakheen, l’ultimo rimasto in vita..e per quanto tenterai di fingerti qualcun altro ricorda: rimarrai sempre ciò che eri quando sei venuto al mondo»
«No...»
«Un Barbaro..»
«..io non sarò mai come voi..» Marbh esalò il suo ultimo respiro. La profezia si era appena avverata. Aveva il sangue del suo sangue fra le fauci. Dall’altra parte della fattoria un ululato malinconico e assordante si elevò alla Luna. Era il pianto del lupo che non avrebbe rivisto mai più.

___ ☾ ___


An Tùs – L’inizio



} Caro Iliham, se stai leggendo queste parole vorrà dire che ormai conosci tutta la verità e che molto probabilmente io non sarò al tuo fianco per aiutarti ad affrontarla. Perdonami se non ti ho mai mostrato prima questo diario...volevo solo che tu vivessi liberamente, senza lasciarti condizionare da tutto questo, come avrebbe voluto tua madre, fino al giorno in cui non saresti stato pronto per accettarlo. Forse non ti senti pronto nemmeno ora..ma in fondo nessuno lo è mai davvero. Hai letto le parole di Namiria? Sembra così simile a te che, condividendo gran parte dei miei giorni al tuo fianco, mi sembra quasi di averla conosciuta. E se ti conosco almeno la metà di quanto credo sono certo che tu non la odierai mai, nel profondo..lo sai bene anche tu. Voleva solo tentare di preservarti e alla fine, malgrado le mille peripezie che hai dovuto affrontare, c’è riuscita. Di sicuro a quest’ora sarebbe fiera di te proprio come lo sono io. Sì, io sono estremamente orgoglioso dell’uomo che sei diventato, Iliham e sono grato agli Dei, ché se una parte di me crede ancora in loro è solo perché esisti tu, di averti fatto raggiungere la mia fattoria, quel giorno...ma volevo ringraziare soprattutto te per avermi concesso il grande privilegio di essere tuo padre. Non te l’ho mai detto ma tu sei sempre stato come un figlio per me. Un figlio meravigliosamente complicato e straordinariamente speciale. Speciale, proprio come lo è il luogo nel quale sono cresciuto: Avalon, un’Isola nascosta fra le nebbie e che per certi versi mi ricorda te...perché hai sempre tentato di celarti dietro un muro di apparenze e gelo, per cercare a tutti i costi di difendere te stesso e le persone che ti circondavano. E’ un bene, ma anche un male, come un’arma a doppio taglio..per questo voglio che tu imprima bene in mente questa mia lezione, l’ultima da parte di questo vecchio che ti ha voluto un gran bene e che continuerà a vegliare su di te fino alla fine dei tuoi giorni. Ama e lasciati amare, odia pure, se ne hai voglia, ma nel frattempo non smettere mai di sognare, di sperare, di credere e sopra ogni altra cosa non dimenticare mai, mai, per niente al mondo, ciò che sei...qualunque cosa terribile dovesse accadere, qualunque ostacolo ti ritroverai ad affrontare, anche se potrebbe sembrarti insormontabile, rimani sempre te stesso, Iliham. Il bambino scettico ma buono, il ragazzo selvaggio ma coscienzioso, l’uomo ragionevole ma passionale. Non reprimere mai niente della tua natura. Fa parte di te. Impara ad accettarti per ciò che sei. E infine, ma non per ultimo, Vivi...vivi intensamente come se non ci fosse un domani. Vivi come se ogni giorno della tua vita fosse l’ultimo. Vivi come se ogni respiro valesse oro a partire da questo istante.
Questo è il tuo turno Iliham. Prendi in mano le redini del tuo destino, fallo ora, perché questo è un nuovo inizio che appartiene solo a te.
Non ti posso assicurare che sarà facile, né tantomeno roseo, ma sarà tuo.
E adesso va, scrivi di tuo pugno il resto della storia...d’altronde di pagine, questo diario, ne ha ancora tante...
Con affetto e profonda devozione {
Ray

OFFLINE
Post: 179
Città: BARI
Età: 37
Sesso: Femminile
29/06/2013 14:16

Animali in cui si trasforma
Lupo
BONUS 
Metri percorribili in un round: giovane 7, adulto 8, veterano 9 
Resistenza magica : giovane n/n, adulto n/n, veterano n/n 
Infravisione : giovane +1, adulto +1, veterano +1 
Sensi sviluppati : giovane udito, vista, olfatto; adulto udito, vista, olfatto, veterano udito, vista, olfatto 
Bonus taglia : giovane +1, adulto +1, veterano +1 
Capacità singolari: incutere timore, resistenza animale 
SKILL FISICHE DI BASE: resistenza 0, potenza 0, agilità +2 


MALUS 

-Non parlano 
-Non manipolano oggetti o impugnano armi, 
-Non possono effettuare azioni complesse dove sono necessariamente richieste le "mani" 
-Generalmente a disagio in condizioni affollate (vs umanoidi) e all'interno di costruzioni 
-Diffidenza generale verso esseri non ben conosciuti.. contrastata da una spiccata curiosità che può portare a trovarsi in pericolo. 

Incutimore Timore 
Questa capacità di alcune razze altro non è che l’infondere paura negli avversari sia per intimidirli, sia per metterli in fuga, sia per farli desistere da un attacco. Viene espressa da un linguaggio tipicamente corporale, con ringhi, ruggiti, artigli e muscoli in mostra. In base al livello sarà possibile avere effetti differenti sulle vittime. NON ha effetto su esseri non intelligenti. Incutere timore comporta una azione completa, pertanto non sarà possibile attaccare nello stesso round in cui si adopera tale capacità. NON può essere utilizzata più volte contro la stessa vittima nel corso di un singolo combattimento. 

LIVELLO 1 tramite il linguaggio del corpo sarà possibile mettere in fuga avversari non determinati, o incutere timore in avversari comunque determinati ad attaccare, caso in cui il primo attacco subirà una penalità a discrezione del master a causa dell’esitazione dovuta alla paura 


Resistenza Animale 

Caratteristica tipica della razza dei Lupi è la loro resistenza agli sforzi prolungati ed al freddo (naturale e magico, sebbene si limitino gli effetti del freddo, e non la componente magica: non è resistenza magica). Questa capacità è dovuta alla conformazione stessa del loro fisico, che sopporta molto bene gli sforzi prolungati (ma non le ferite, per questo differisce da resistenza fisica), e alla pelliccia che contraddistingue questi animali, spesso oggetto del desìo di molti cacciatori 

LIVELLO1 fisico sviluppato normalmente, pelliccia tenera e morbida che permette di resistere a temperature rigide (-10 gradi) senza malus, o al freddo magico (0 gradi). Capacità di non risentire di sforzi prolungati per 7 round 

Skill da bg: Potenza liv 1
Karma al momento del cambio: 4000 pt circa (da sistemare)
Karma da Animorph: //




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