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Iliham [Indole umana] PG ESILIATO

Ultimo Aggiornamento: 29/06/2013 14:16
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Post: 179
Città: BARI
Età: 37
Sesso: Femminile
31/05/2013 14:57

Bg

Provenienza: Irlanda
Allineamento: Caotico Neutrale
Descrizione Fisica: Sono trascorsi 24 anni dal giorno della sua nascita e tutti gli inverni vissuti fin'ora sembrano aver plasmato perfettamente le forme definite di questo giovane uomo del Nord. Di un biondo tanto chiaro da divenire bianco in direzione delle punte, i suoi capelli rappresentano il retaggio più caratteristico dei clan barbari delle montagne dell'Ulster. Un paio di occhi di ghiaccio - di quello più puro, senza sfumature sulla sua superficie - adorna un volto d'alabastro dai tratti marcati e mascolini che ogni tanto si ricopre di un leggero velo di barba, di una tonalità più scura rispetto al colore dei suoi capelli. Grazie al suo metro e ottantotto di altezza e alla sua massa muscolare particolarmente sviluppata e massiccia si è guadagnato più di un appellativo nel corso della sua vita. Da colosso a montagna, da gigante a angelo del nord. Due sono le particolarità che appartengono al suo corpo. La prima è visibile, una fossetta profonda che spunta di continuo sulla sua guancia destra tutte le volte in cui sorride pienamente, mentre la seconda no. Si tratta di una cicatrice che gli è stata impressa con la punta di una lama all'altezza dell'addome e che richiama visibilmente un simbolo nordico: Gungnir, la lancia di Odino(http://www.kotowari.org/wp-content/uploads/2008/02/gungnir2.thumbnail.jpg).
Parentele: Iliham è imparentato con suo fratello Finian.
Note particolari: Conosce e parla perfettamente il Gaelico Irlandese oltre alla lingua comune. Il pg è mancino.



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An Deireadh - La Fine



La camera del vecchio Ray era eccessivamente piccola per uno della sua corporatura, ma non abbastanza per lo stesso proprietario. Non la ricordava così minuscola..forse solo perché l’ultima volta che ci aveva messo piede era ancora un fuscello di ragazzino e proprio per questo quelle quattro mura apparivano molto meno soffocanti di adesso. Quella stanza sembrava suggerirgli l’impressione di essersi ristretta con gli anni, avviluppata in se stessa proprio come era accaduto per il corpo raggrinzito dell’uomo steso malamente su di un letto, avvolto sotto l’abbraccio delle pesanti coperte di lana grezza come una larva..l’unica differenza era che per lui il processo stava per avvenire nel verso contrario. Non si preparava a tirar fuori le ali ma piuttosto a richiuderle. A quel pensiero rabbrividì sotto il pastrano in tela marrone che ormai riusciva a contenere a stento le sue forme. Lanciò un’occhiata in direzione del giaciglio, di sbieco, come se volesse reprimere la volontà di guardare oltre il suo naso ma al contempo sentisse la necessità di farlo. Ciò che quello sguardo incerto gli rimandò indietro non fu affatto rincuorante. Il vecchio Ray se ne stava ancora lì, steso nella sua impassibile staticità, quasi del tutto immobile se non per il lento innalzamento di una parte delle coperte che doveva corrispondere al suo petto stanco, pronto a sgonfiarsi d’aria l’istante successivo..per quanto ancora durerà, si ritrovò a pensare, diviso dal tormentato desiderio di poter mettere a tacere lo strazio e la pena del vecchio e al contempo dalla speranza di poterlo avere al suo fianco ancora per un po. Si trattava di un pensiero egoistico, ne era consapevole, perché voleva dire prolungare oltre ogni sopportazione le pene di quel pover uomo , ma non poteva fare a meno di agognare altri stralci della sua vita. Non si sentiva abbastanza pronto per lasciarlo andare. Non ancora..ma sapeva anche che la decisione non spettava ne a lui ne tantomeno a Ray.

«Mi dispiace..» biascicò a labbra strette..e ciò che quel mormorio suscitò fu inaspettato per entrambi. Un colpo di tosse arrochito scosse il corpo dell’anziano mentore che improvvisamente trovò la forza di riaprire gli occhi e di voltare il capo alla ricerca di un altro paio di iridi piuttosto note per lui. Lo erano certo, ma non così, non quando si riempivano di lacrime in quel modo.
«Avevo perso le speranze ormai.. » borbottò Ray da sotto le coperte.
«Riguardo cosa?» domandò l’altro avvicinandosi al capezzale dell’uomo. Sembrava sovrappensiero..o almeno questo era ciò che il suo tono di voce suggeriva, ma aveva colto perfettamente il riferimento alle lacrime che proprio in quel momento gli gonfiarono gli occhi.
«Riguardo la tua capacità di riuscire a farlo ancora..l’ultima volta che è accaduto avevi raggiunto a malapena l’altezza delle mie spalle.» al termine di quelle parole un angolo delle sue labbra crespe s’incurvò. In qualche modo Lui sapeva che si trattava dell’ultimo sorriso che avrebbe ricevuto da Ray.
«Non andartene..» supplicò, stringendo un lembo delle coperte fra i pugni.
«Smettila di lamentarti come una femminuccia..non mi sembra di averti mai insegnato a farlo durante tutti questi anni» rimbrottò duramente il vecchio.
«Mi sembrava di averti sentito dire che un uomo che piange non dimostra affatto debolezza, ma una forza in misura maggiore rispetto a coloro che invece fingono indifferenza, una volta» accusò Lui, rincarando la dose. E’ assurdo, pensò..riuscì a trovare il coraggio di contrastarlo anche in quel momento. Ma Ray sapeva che dietro la rabbia del giovane si celava ben altro. Amarezza, angoscia, malinconia del tempo passato e tanta, tanta impotenza, perché erano le stesse sensazioni che un tempo provava anche lui. Adesso invece avvertiva solo la leggerezza dell’accettazione.
«E infatti non mi riferivo alle tue lacrime..» il vecchio sospirò profondamente prima di riprendere a parlare.
«Devi fartene una ragione Iliham..dobbiamo morire tutti prima o poi e lo sai bene anche tu» stavolta la voce del mentore si sfumò di una nota di dolcezza. Ma quando la parola “morire” arrivò alle orecchie del giovane ogni difesa si sgretolò come un castello di sabbia. Affondò con pesantezza il volto fra le mani e quel gesto testimoniò la sua resa. Era un nemico impossibile da sconfiggere persino per lui.
«Sotto le assi dell’armadio..» borbottò Ray prima che l’ennesimo colpo di tosse lo investì.
«Cosa?» domandò con perplessità il giovane prima di dirigersi verso il grande guardaroba che occupava quasi completamente una parete della stanza. Cominciò a fare pressione sul legno che costituiva la base interna del mobile e dopo qualche istante riuscì a ricavare una piccola fessura al di sotto delle assi. Infilò rapidamente una mano all’interno dell’apertura e quando sotto le dita avvertì la consistenza di un qualcosa di rigido la affondò ancora di più. Dalla fenditura estrasse quello che rapidamente riconobbe come un piccolo diario leggermente consumato dai segni del tempo. Si rigirò l’oggetto fra le mani con aria confusa..ma non fece neanche in tempo a sfogliare la prima pagina che un sospiro dall’altra parte della stanza decretò la fine di Ray. La fine di tutto.
«NO!!! No..» implorò con voce soffocata. «Ti prego.. » ma a niente servirono le sue grida sommesse o i suoi tentativi di rianimare il corpo del mentore, di scuoterlo con violenza..ben presto si ritrovò a stringere un peso morto fra le braccia, come se stesse cullando il ramo rinsecchito di un vecchio albero anziché un uomo.
Per un’ora o forse anche più la camera del vecchio si riempì dell’eco assordante di un urlo. Credeva di aver conosciuto abbastanza il significato della parola dolore ma a quanto pare si sbagliava. Il male di un uomo non aveva confini.
L’urlo s’arrestò in una sequenza sconnessa di respiri irregolari quando tutte le lacrime del giovane si prosciugarono e nel suo corpo non rimase nemmeno più un briciolo di forza. La morte si era appena portata via tutto, perfino la pesantezza della disperazione. Tornò con lo sguardo offuscato dal pianto sul minuscolo oggetto che stringeva a stento fra le dita tremanti.
Tutte le sue certezze si erano appena dissolte come neve al sole. Tutte tranne una...fra le pagine di quel vecchio diario si rintanava la verità. La Sua Verità.


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An Diallan – Il Diario



16 di Beth

} Luna Piena. Sapevo che saresti stato speciale in qualche modo. Non poteva essere altrimenti. Sei stato pensato, concepito, messo al mondo per esserlo. So già che mi odierai per questo. So già che mi odierai per tantissime altre cose. Mi odierai senza nemmeno conoscermi e odierai anche solo il pensiero di me proprio perché questa possibilità non ti è stata concessa. Che madre cattiva, penserai. Che donna crudele, ti ritroverai a credere nel tentativo di dimenticarmi. Di dimenticare cosa? Un’idea? Un’immagine sfocata? Un ricordo vago? Io ti rimembrerò a malapena, con tutta la coscienza che i miei anni esigono. Come potrei pretendere che tu, cucciolo d’uomo, possa ricordare me o i miei occhi? Ma anche tu lo sei stato. Crudele. Ci hai messo delle ore a venir fuori. Una notte intera per darti alla luce. Una vita intera per generarti. Scalciavi con la forza di un guerriero già dai primi mesi, forse consapevole del fatto che, in questo modo, avresti reso fiero di te tuo padre, senza nemmeno sapere di averlo un padre. E poi ti sei scavato con la forza una fessura dentro di me. Mi hai lacerata. Mi hai fatto del male. Quanto dolore, suppliche, sudore, pianti, imprecazioni ho liberato sotto la luce splendente della luna. Per un istante ho creduto di odiarti. Avrei voluto ricacciarti nello stesso punto indefinito dell’inesistenza dal quale eri giunto. Prima di vedere i tuoi occhi. Ecco, è proprio questo il momento in cui una madre comincia ad amare davvero suo figlio, pensai. Proprio nell’istante in cui si rende conto di quanto sia reale, perché prima di allora rappresentavi solo un’ideale dentro di me. Avrà gli occhi di suo padre? I suoi capelli? Il suo coraggio? La sua tenacia? La sua temerarietà? Mi domandavo ogni sera, prima di coricarmi a letto, con te che mi facevi compagnia dal mio ventre gonfio, allungando i piedini e deformando la pelle della mia pancia con le tue dita minuscole. E avrà anche la sua freddezza? Il gelo del suo sguardo vitreo? La sua incapacità di provare pietà per un uomo? La sua furia? La sua bramosia? Mi tormentavo volutamente nel silenzio dei miei quesiti irrisolti. E avrà la sua rabbia sfrenata? I suoi tratti marcati? La sua assenza di autocontrollo? Il suo fascino irresistibile? La sua violenza? La sua bellezza? Il suo ardore in battaglia? La sua adrenalina dinanzi alla vista del sangue versato? Perché è per questo che eri stato pensato, concepito, generato. E’ a questo che saresti andato incontro. Ma poi incrociai il tuo sguardo. Erano i miei stessi occhi, talmente identici da dare l’impressione che, con qualche arcana magia, me ne avessi strappato con violenza una parte, solo per ricreare l’autenticità delle mie iridi color del ghiaccio. Di quello più puro, senza sfumature sulla sua superficie. I capelli invece erano prepotentemente differenti dai miei. Il mio volto era incorniciato da una fluente chioma corvina, del colore della notte più cupa, pari all’onice, talmente liscia da ricordare l’essenza del cristallo nero. Dalla tua testolina invece fiorivano ciocche di un biondo tanto chiaro da apparire bianco in certi punti, un crine di seta rilucente. Erano i suoi capelli, i capelli di tuo padre. Ma gli occhi erano i miei e tanto bastava. Provai una gioia incontenibile nel constatare che, con la stessa arcana magia della quale ti eri servito per rapire il colore dei capelli di tuo padre, avevi rubato anche una parte di me. Perlomeno sapevo che, in qualunque parte del mondo ti saresti ritrovato, qualunque cosa fosse accaduta al mio corpo o alla mia anima, uno scorcio di me sarebbe sempre esistito attraverso di te. Quegli occhi erano la prova concreta di quanto mi appartenessi. E poi c’era la tua pelle, candida e opalescente come se qualcuno vi avesse versato una manciata di neve sopra. Forse il merito era da attribuire tutto alla luna...

Luna Nuova. Non potevo permettere che accadesse tutto questo. Tu potrai anche odiarmi in eterno. Anzi, sono del tutto certa che mi odierai. E avrai tutto il diritto di essere arrabbiato con me un giorno. Ma io non potevo permettere che diventassi come lui. Che ti riducessi ad essere un automa come tutti gli altri, che ti mettessero un’arma fra le mani prima ancora di divenire abbastanza grande per sostenerne il peso. Io non potevo permettergli di scrivere il destino che ti apparteneva al posto tuo. Credevo di essere pronta ad accettarlo. Mi avevano preparato a tutto questo già da quando ero piccola. Le compagne dei Talakheen sono solo degli strumenti, involucri, dicevano, per contenere quelli che un giorno diverranno i futuri guerrieri del villaggio. Il figlio che un giorno darai alla luce non sarà mai Tuo, mi convincevano, ma dell’intera popolazione. Che tu sarai o meno il suo guscio non farà alcuna differenza, non avrai nessun diritto sul bambino. I futuri Talakheen appartengono agli uomini. Per le donne la questione era del tutto diversa, ed il fatto che tu fossi il figlio del capoclan non mi offriva sconti di alcuna sorta. Per questo non potevo permetterglielo, capisci? Non una seconda volta. Non potevo permettere che anche tu facessi la stessa fine di tuo fratello. Ti avrebbero strappato il cuore dal petto davanti ai miei occhi se solo non fossi cresciuto all’altezza delle loro aspettative. Ho visto tante di quelle madri disperarsi di fronte ai corpi privi di vita dei loro figli, di nascosto, lontano dallo sguardo dei guerrieri. Forse lo sto facendo solo per preservare me stessa, anche se in fondo, il saperti lontano da me non attutisce ne il senso di colpa ne tantomeno il tormento. Ma ti concederà la libertà. Quella che io non ho mai posseduto ma sempre desiderato. Non volevo che divenissi come me, come tutti gli altri, come tuo fratello, il Diavolo vivente..Meritavi qualcosa di diverso, qualcosa di migliore. Perciò odiami pure se vuoi, ma almeno fai un piccolo sforzo per comprendermi. Per comprendere le motivazioni che mi porteranno a tenerti lontano da questo villaggio, da questa vita, da me. Accadrà questa stessa notte. Il giorno in cui sei nato corrisponderà anche al giorno in cui diverrai un uomo libero. Nel caso in cui ti avessi tenuto con me, il tuo nome sarebbe stato Fuar, Freddo, come la notte in cui sei venuto al mondo, il nome che ho comunicato anche agli altri prima di darti alla luce. Ma dal momento che tra poche ore non potrò avere più nessun diritto su di te, è giusto che coloro con i quali andrai a vivere ti facciano dono dell’identità che più preferiscono. Ti lascerò vicino al sentiero principale di Dubh Coill, ai margini della foresta. Ho già preso accordi con una delle famiglie più benestanti e benvolute della città oltre il grande fiume. La femmina di quella coppia è sterile ed entrambi desiderano un bambino da anni. Malgrado tutto sarai sempre e comunque il mio piccolo Angelo… Lascerò questo diario fra le coperte che ti proteggeranno, in memoria dell’attimo in cui hai cominciato a vivere. In memoria di quello che sarebbe potuto accadere e di quello che invece non accadrà. Mai. In memoria di tuo padre, E’amann. In memoria di tuo fratello, Ualtar. In memoria di me. {
Namiria


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An Sclábhaí – Lo Schiavo



Il bambino fu affidato ad una comunità di schiavisti. Figlio di un barbaro e di una donna che commise l’errore di amare troppo, abbandonato ancora in fasce in una notte di gelido inverno accanto al corpo privo di vita di sua madre, trovato accidentalmente da una famiglia di ladri che si sbarazzò di lui in cambio di un mulo che poi si scoprì vecchio, il neonato dal marchio rosso crebbe, nei suoi primi anni di vita, sotto le cure di una donna, una delle tante schiave di Marbh Khaleen, capo supremo della comunità. Il suo corpo particolarmente fertile aveva già dato alla vita altri figli in passato perciò il nuovo ‘acquisto’, come veniva definito dagli altri, fu destinato a lei. Balia di giorno e compagna di Marbh di notte, si occupò del nutrimento del piccolo orfano e di tutto ciò di cui un neonato necessita. Non vi era particolare attenzione nelle cure che prestava al bambino visto che per lei uno valeva l’altro, anche se vi erano momenti in cui, incantata dal colore cristallino dei suoi occhi splendenti e sottili, donava a quello sfortunato cucciolo d’uomo un sorriso. Non affettuoso, non gentile o dolce. Si trattava bensì di un sorriso pieno di commiserazione e pena. Laila sapeva che quel bambino non avrebbe mai avuto un futuro duraturo all’interno di una comunità di schiavi, né il calore di una famiglia tutta sua. Una volta entrati a far parte della Cerchia, infatti, il passato non contava più. Tutti perdevano la loro umanità, costretti ad un’esistenza priva di radici o fondamenta. Erano tutti identici, vestiti di stracci e della stessa espressione di vuoto e assenza che li caratterizzava. Donne, uomini, vecchi o bambini. Non vi era alcuna distinzione. Se riuscivano a dimostrarsi utili per le mansioni più disparate guadagnavano il diritto alla sopravvivenza e di un misero pasto al giorno, nel caso contrario perivano, di fame, di stenti, di ferite sanguinanti mai guarite o della malattia peggiore che un essere umano potrebbe mai contrarre, la solitudine.

Vi era una vecchia tra gli schiavi. Il suo nome era Sherazar. Nella Cerchia aveva il ruolo di Bean Feasa, chiaroveggente nella lingua comune. Non vi era uomo, donna o bambino che non avesse ricevuto l’ordine da parte di Marbh di rispettarla. A nessuno era concesso il diritto di toccarla o di farle del male. Marbh non aveva cuore. Era un guerriero, alcuni dicevano che fosse anche lui, proprio come l’orfano dai capelli biondi, figlio dei barbari dell’Eire. Era un assassino privo di onore ma credeva molto nel Dio delle Tenebre al quale si votavano tutte le Bean Feasa. Forse anche troppo...
La tradizione delle chiaroveggenti era stata tramandata da generazioni nella Cerchia visto che il Dono, come lo definivano loro, era annidato nel loro sangue e che quindi veniva trasmesso da madre in figlia. Nessun maschio veniva considerato al pari di loro dal momento che non ereditava, differentemente dalle femmine, i poteri della Bean Feasa che lo aveva generato.
Gli schiavi dicevano che Sherazar solcava la terra da più di duecento anni. Ma gli schiavi dicevano tante cose e non sempre corrispondevano a verità. Aveva origini diverse da quelle di tutti gli altri. La sua pelle era scura e raggrinzita, i suoi capelli grigi e le sue gambe storte come alberi deformati dalla forza del tempo…tuttavia possedeva abilità peculiari. In molti la definivano, lontano dalle orecchie di Marbh, come una Megera, per la sua capacità di ingannare gente di ogni sorta con qualche carta, fumo o luce soffusa. La sera era solita riunire molta gente attorno ad un fuoco. Era capace di parlare dal crepuscolo all’alba senza mai interrompersi e di incantarli tutti. Narrava spesso storie di eroi, ma anche favole e leggende di demoni e spiriti quando la notte si faceva più cupa. Diceva di avvertirli sulla sua stessa pelle, diceva di esser contesa da loro e ogni singola volta, con quelle semplici parole, riusciva a donare un brivido di terrore al suo piccolo pubblico. Laila amava ascoltarla, anche per lunghe ore, prima di addormentarsi, ma vi era una storia, fra le tante, che le piaceva in particolar modo…parlava di una creatura alata e rivestita di luce giunta dal cielo per liberare una donna divorata dal fuoco delle fiamme infernali…

Avrebbe dovuto distruggere il diario trovato tra le coperte che ricoprivano il corpo alabastrino del piccolo ma fece l’esatto contrario, decidendo di custodirlo gelosamente sotto gli spessi centimetri di lana e paglia del suo giaciglio, all’insaputa di chiunque, di Marbh e perfino dell’orfano che negli anni seguenti non si rese mai conto di quel minuscolo libricino che di volta in volta cullava i suoi sogni. Il bambino che Laila crebbe possedeva già un nome, Fuar, ma lei, leggendo quelle pagine, decise che per un uomo nuovo serviva un nome nuovo e fu allora che lo ribattezzò Iliham, lo stesso nome dell’angelo alato dei racconti di Sherazar. Un piccolo angelo in miniatura dai capelli biondi come il grano e dagli occhi chiari come il cristallo più puro.
Laila si era ripromessa di non legarsi a nessuno di loro ma quel bambino…quel bambino era speciale.

«E’ un Leathfear!» sibilò la vecchia Sherazar sul punto di morte, in una notte di Luna piena punteggiata da poche e sparute stelle, sputacchiando fra una parola e l’altra grumi di saliva e sangue. Per tutta la durata della sua lunga agonia mantenne gli occhi –di un bianco lattiginoso nel quale non era previsto alcuno spazio fra la pupilla e l’iride ma solo un’immensa vastità vuota con la quale il suo sguardo si stendeva su tutto e nulla – sgranati in direzione di Iliham, indovinando la posizione del bambino tra la folla nonostante la cecità con la quale aveva convissuto da tutta la vita. Lui la osservava da lontano con uno sguardo apparentemente spento, ma vi era una certa animosità nel modo in cui strinse i suoi piccoli pugni contro i fianchi...
Poi, improvvisamente, tra un verso sofferto e l’altro, la voce della vecchia divenne gelida e composta, ogni tremore abbandonò il suo corpo ed una nenia meccanica s’innalzò dalla sua bocca, risvegliando la ragnatela di rughe cresciuta attorno alle labbra.
«Fuar, secondogenito del grande e temibile E’amann, Dùn dar Talakheen, fratello del Diavolo e figlio dei Barbari dell’Eire, il tuo destino è scritto nei sogni. Sangue del tuo sangue tra le fauci. Brace e ghiaccio negli occhi. Artigli di luna. Nemico del fuoco e del sole. Segui le impronte dei Lupi. La grande Gealach saprà indicarti la strada. Segui i Lupi. I Lupi. »
A seguire quelle parole nella cella che la ospitava calò un profondo silenzio, oltraggiato solo dai respiri soffocati e rochi della vecchia che, qualche ora dopo, perì nel bel mezzo di un delirio che parve del tutto incosciente. Nessuno fece troppo caso alle parole smorzate che cantilenò fino alla fine «Occhi di brace. Sangue tra le fauci. Lupi..lupi » nessuno eccetto Iliham…e Marbh, il quale, con il passare del tempo, cominciò a provare un’ingiustificata gelosia nei confronti di quel bambino che, contrariamente a quanto credevano tutti gli altri, riuscì a superare perfettamente la soglia dei sei anni d’età. Fragile come un ramoscello ma agile come un piccolo scoiattolo, Iliham saltellava fra i cunicoli della Fossa – un’enorme costruzione che si estendeva per metri e metri sotto terra, ricca di corridoi di pietra illuminati a stento dalla luce di qualche torcia e di una quantità spropositata di diamanti incastonati e protetti da pareti irregolari e rocciose – senza sosta, contribuendo diligentemente al lavoro a cui erano obbligati dall’alba al tramonto. I bambini all’interno di quella comunità avevano un solo e semplice scopo: il loro compito consisteva, infatti, nel trasportare a mano i diamanti estratti dai colpi di picche degli adulti e di introdursi nelle gallerie più strette ed inaccessibili per lavorare e scavare nella roccia laddove alcun uomo sarebbe potuto giungere. Numerose erano le morti di quei ragazzini, principalmente dovute a frane improvvise o al soffocamento visto che l’aria là sotto era a dir poco irrespirabile.
Il figlio dei Barbari, differentemente dagli altri, non riuscì a stringere alcun legame con i suoi coetanei e tantomeno con i grandi, che dal giorno della morte di Sherazar lo adocchiarono con un misto di disgusto e sospetto, e non perché non lo volesse, ma perché la sua incapacità comunicativa non gli consentiva mai di allacciar alcun rapporto con nessuno; Iliham, o il fratello del Demonio, come continuavano a bisbigliare in molti, non aveva mai parlato, nemmeno una volta da quando si trovava lì, tanto che la maggior parte degli schiavi lo additava come muto, attribuendo a quella mancanza di linguaggio verbale una disfunzione genetica posseduta fin dalla nascita. L’unica che riusciva a provare una qualche forma d’affetto nei riguardi di quel ragazzino biondo era Laila, la donna dai capelli rossi come il fuoco e gli occhi verdi come l’acquamarina che l’aveva cresciuto e tirato su fino a quel momento e che quasi ogni notte, nel bel mezzo di incubi spaventosi, quelli che avevano cominciato a tormentarlo dal momento in cui Sherazar perì, asciugava la sua fronte con un panno bagnato e sussurrava al suo orecchio storie di terre lontane nelle quali nessun uomo era costretto in catene e la popolazione viveva pacificamente, lande nelle quali il diritto alla libertà che è nella natura di ciascun essere umano veniva rispettato. Un luogo lontano anni luce da lì…o almeno, questo era ciò che il figlio dei barbari immaginava…

Fu Laila a salvargli la vita. In realtà l’aveva già fatto attaccandolo al seno ma quello il bambino non poteva ricordarlo. Quella volta invece non l’avrebbe dimenticata mai.
Sembrava un giorno come tanti altri, scandito dalla ripetizione indifferente di azioni e gesti che in se recavano il gusto insipido della monotonia. Come ogni mattina il bambino si alzò al suono fastidioso della frusta che la guardia che controllava quel lato della prigione faceva schioccare violentemente contro le grate delle loro celle. Come sempre, dopo aver sbocconcellato un frutto – o ciò che i vermi avevano lasciato intatto dello stesso – si recò presso il luogo in cui solitamente tutti i bambini venivano radunati così che ad ognuno di loro poteva esser dato un compito e indicato precisamente il punto in cui dovevano spingersi, fra i cunicoli della Fossa. Quel giorno a Iliham toccò la Freccia, il settore della prigione denominato in tal modo dagli schiavi per la sua forma assottigliata e dritta che ricordava le fattezze di un dardo. Lì, perlomeno, il rischio di perdersi era inverosimilmente ridotto. Portò a termine il suo lavoro in silenzio, come ogni singola volta, senza prestare troppa attenzione agli uomini e ai bambini che di tanto in tanto gli sfilavano alle spalle, diretti nella direzione opposta alla sua. Nel tardo pomeriggio, di ritorno dalla Freccia, stanco e assetato, raggiunse la mensa, o almeno tentò di farlo prima che un qualcosa di duro e ruvido andò a schiantarsi direttamente sulla sua faccia, provocandogli un dolore acuto all’altezza della guancia sinistra. Non si concesse nemmeno il tempo di domandarsi alcunché perché, più per istinto che per reale esperienza, in quell’istante era troppo impegnato nel tentativo di sfuggire al secondo colpo che già mirava a colpirgli la gota opposta. Lo mancò per un soffio e fu solo per il fatto che il suo corpo era minuto e scattante, differentemente da quello dell’uomo che lo sovrastava e che già si preparava ad infierire di nuovo su di lui, che ci riuscì. In risposta ad un impulso affrettato si precipitò verso l’altro, approfittando del colpo con il quale quello tentò di investirlo –approfittando di uno dei fianchi altrui scoperti - per attaccarsi con furia al suo polso e addentarlo con una forza dannatamente brutale. Voleva arrecargli lo stesso dolore che aveva appena subito. Voleva farlo sanguinare e ci riuscì. Ma in tal modo riuscì anche a commettere il più grosso sbaglio di quella giornata. Infatti, dopo pochissimi istanti, due mani lo afferrarono con forza da dietro, obbligandolo a tenere le braccia incrociate dietro la schiena. Si dimenò e scalciò come un animale in trappola, agitando le gambe all’aria senza che in nessuno di quei calci vi fosse una direzione da intraprendere o un bersaglio da colpire. Voleva solo liberarsi e tornare a caricare l’altro come un piccolo toro imbestialito. Ma l’altro in questione era l’unico bersaglio che non avrebbe dovuto prender di mira. Era Marbh Khaleen, il capo degli schiavi in persona. Iliham non aveva mai avuto modo di scorgere la sua faccia da vicino come in quel momento...e forse sarebbe stato meglio tenersi il dubbio alimentato dal mistero che aleggiava di continuo attorno a quella figura perché quel volto non aveva niente di umano.
Se il demonio aveva davvero una faccia, di sicuro era la sua.

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An Fiàin – Il Barbaro



Due occhi neri come pece ricambiarono il suo sguardo pericolosamente meravigliato. Sapeva che la decisione di fissarlo in tal modo era la più stupida che potesse prendere ma non poteva farne a meno. Una cascata di capelli di un biondo acceso e sgargiante fluttuava, stretta nella morsa di quattro trecce spesse, compatte come fruste e lunghe al punto da superare l’altezza delle sue natiche, al di là di un paio di spalle incredibilmente massicce e larghe, in gran parte scoperte dalle maniche della lunga casacca in pelle nera che indossava e che celava a stento l’ammasso glorioso dei muscoli, quelli che ad ogni singola pulsazione della carne o movimento degli arti gridavano spudoratamente ferocia. La sua pelle era olivastra e ruvida come cuoio, cosparsa di cicatrici profonde che andavano a mescolarsi disarmonicamente con l’intreccio dei tatuaggi che la ricoprivano per intero, simboli privi di significato per gli occhi di cristallo di Iliham che continuava a contemplare quel ritratto di forza e brutalità senza sosta. Si accorse che la metà sinistra della faccia di Marbh era diversa dalla sua gemella. Dava l’impressione di essersi orribilmente liquefatta, calando verso il basso, rossa ed escoriata, come se qualche forza arcana volesse calamitarla a terra. Lungo tutto il naso, a partire dalla sua radice, spuntavano da un lato e dall’altro anellini d’oro, piccoli e lucidi. Anche le sue orecchie, di cui una era stata privata del suo lobo, erano impreziosite dai monili più strani, alcuni in metallo e altri ancora in osso. La parte della bocca che apparteneva alla metà bruciata aveva subito la stessa sorte di quel volto, incurvata all’ingiù come se vi fosse in Marbh un qualche frammento di tristezza, diversamente dall’altra il cui angolo era innaturalmente incurvato all’insù e fin troppo lungo per le dimensioni consuete di una bocca, come se qualcuno gli avesse tagliato la guancia diagonalmente con lo scopo di compensare la tristezza con la gioia. Una gioia a dir poco macabra.
Doveva essere un uomo straordinariamente bello un tempo, credette Iliham, che senza rendersene conto smise perfino di dimenarsi fra le braccia di uno dei tanti scagnozzi che Marbh aveva al suo servizio e che lo teneva ancora intrappolato contro il suo torace muscoloso. Dalla montagna d’uomo che lo fronteggiava, armata della stessa frusta che aveva usato per colpirlo da un lato e di una bastarda legata al fianco dall’altro, emerse un suono gutturale e rude. Si trattava di un ordine giunto in una lingua che Iliham non riconobbe. Alla sua destra spuntò tutto d’un tratto un ragazzino, uno dei tanti che lavoravano con lui. Uno di quelli che disprezzava particolarmente. Il suo sorrisetto tronfio non gli era mai piaciuto. Era come se Palla di Lardo, così come veniva segretamente nominato fra i bambini – anche se ormai non era più un segreto nemmeno per lui – per via della sua pancia abbondante, sapesse sempre qualcosa che agli altri sfuggiva. Quell’esperienza fu più che utile a fargli comprendere quanto il suo intuito difficilmente falliva. Palla di Lardo gli si avvicinò mentre Iliham lo fissava con scetticismo e livore, spostando lo sguardo dal volto di Marbh alla mano grassottella del ragazzino diretta verso una tasca dei suoi pantaloni. Dalla stessa emerse, l’istante successivo, un radioso diamante che il figlio dei barbari scrutò con aria incredula. Si sarebbe accorto del suo peso se lo avesse trascinato fino a quel momento nella tasca. Ma vi era un dettaglio molto più significativo in tutta quella storia. Iliham non era un ladro. Non lo era mai stato. A quel punto comprese. Le sue labbra si piegarono in una smorfia carica di disprezzo, così come quelle di Palla di Lardo per un attimo, un solo miserabile attimo, si riempirono di un’empia e malevola soddisfazione prima di aprirsi in una O sbigottita.
«Ladro! Ladro!» sbraitò alla folla che già si era accalcata nei dintorni fino a formare un vasto semicerchio attorno a loro. Quasi tutti gli altri lo seguirono finché quella parola non riecheggiò da un lato all’altro della Fossa. Quel coro concitato fu talmente assordante da raggiungere anche Laila che, dal pozzo centrale della prigione, si diresse rapidamente nella direzione indicata da quelle voci, cercando di farsi spazio fra la calca di persone.
«Silenzio...SILENZIO!» ordinò la voce imperiosa di Marbh, minacciosa almeno quanto lo era il suo aspetto e dal tono vagamente deformato, come se non fosse del tutto abituato ad esprimersi nella lingua comune. La folla si ammutolì all’istante, così la montagna d’uomo riprese a parlare, senza mai staccare gli occhi di dosso da Iliham.
«Chi sa dirmi cosa succede ai ladruncoli che osano rubare oggetti di MIA proprietà?» domandò, con una sfumatura di perversione nella voce.
«Gli vengono tagliate le mani!» rispose Palla di Lardo senza esitazioni, gongolando come se Marbh al posto della frusta stesse impugnando una ciambella cosparsa di zucchero.
«Esatto!» esclamò Marbh con una certa enfasi, sgranando gli occhi neri verso il ragazzino biondo che lo osservava e che sembrava affrontare ciò a cui stava per andare incontro con un orgoglio che, ne era inconsapevole, avrebbe reso fiero di lui suo padre.
«Gli vengono tagliate le mani» ripetè la montagna, abbandonando la frusta a terra e sfoderando la spada. La lama tirata a lucido compì un arco intero verso l’esterno, tagliando l’aria con decisione, tanto che quella parve gemere per una frazione di secondo. Mentre Palla di Lardo rideva a crepapelle l’uomo che lo tratteneva costrinse Iliham a spingere le braccia in avanti e ad esporre le sue piccole mani dinanzi a sé, anche se non fu così difficile visto che il ragazzino non oppose resistenza. Palla di Lardo e molti altri sembravano eccitati all’idea di poter avvertire presto l’odore del sangue ma soprattutto a quella di recare un po di dolore al bambino muto. Forse, speravano, almeno in quell’occasione avrebbe aperto bocca. Ma a Iliham, che mantenne il suo sguardo gelido immobilizzato in quello di Marbh, parve di intravedere un lampo di rabbia in quegli occhi scuri. No, non era solo un’impressione. Marbh era fuori di se dalla collera e quando l’orfano comprese la ragione di tanto astio se ne compiacque intimamente. Ad alimentarla fu la sua innegabile mancanza di paura, simile a quella di chi non ha nulla da perdere.
Mentre il capo degli schiavi portò la bastarda all’indietro per caricare il colpo, Iliham si preparò a riceverlo senza muoversi di un centimetro, con le braccia ostinatamente tese in avanti e le cristalline inchiodate verso il volto del suo carnefice.
Era pronto.
La lama vibrò nell’aria.
La folla trattenne il fiato.
Quel coraggio apparentemente dissennato non era certo comune.
Marbh lo riconobbe in un lampo di furia cieca.
Era il coraggio di un Barbaro.

___ ☾ ___



An Ealù – La Fuga



Laila credeva che un uomo non potesse ritenersi più prigioniero di così…ma si sbagliava di grosso. La cella nella quale fu rinchiusa non era grande nemmeno la metà di quella nella quale aveva trascorso gran parte dei suoi giorni da schiava. Puzzava di cose lasciate a marcire a lungo, era stretta, lunga e rivestita dell’odore fetido della morte. Se non fosse stato per la presenza saltuaria di qualche ratto di sicuro la donna che aveva allevato il figlio dei barbari sarebbe impazzita nel giro di poco tempo. Non un misero raggio di luce riusciva a penetrare fra le pareti rocciose di quella prigione dal momento che la porta era totalmente rivestita in acciaio, nei muri non vi erano fessure e gli spioncini restavano perennemente chiusi. Vi erano delle notti in cui, legata in catene su di un angolo della prigione, Laila rincorreva il pensiero legato ad un ricordo fin troppo recente ma che nella sua mente appariva quasi distorto, come se in realtà fossero passati innumerevoli anni dal giorno della fuga del piccolo Iliham, quella che lei stessa aveva ordito contro gli interessi dell’uomo che fino a quel momento le aveva concesso di vivere una vita meno miserabile rispetto a quella di molti altri. A confronto con l’inferno che stava passando in quei giorni, si ritrovava a pensare, la morte era un’opzione di gran lunga preferibile..eppure mai, nemmeno per una volta, si pentì della scelta presa...

«Staaaad!» aveva urlato Shannon tra la folla, un istante prima che la lama di Marbh tranciasse i polsi dell’orfano, la stessa che, in risposta a quel grido disperato, aveva deviato, ad un soffio da quelle carni morbide, il corso della sua traiettoria, abbattendosi al suolo con un tonfo sordo e fastidioso. Tutte le facce dei presenti si erano voltate improvvisamente in direzione di Shannon che subito dopo era emersa dalla calca di persone, con un’aria grave sul volto scuro e che, per quanto fosse giovane, sembrava già quello di una vecchia. Era fin troppo simile alla madre ma i suoi occhi nocciola, nell’istante in cui avevano puntato quelli di Iliham, possedevano ancora tracce di senno. Era la nuova Bean Feasa della Cerchia, primogenita di Sherazar, Custode del Dono.
«Abair liom cad chuige!» aveva chiesto Marbh in un impeto di rabbia, trattenendo ancora l’impugnatura della spada fra le dita. Sheraan, a seguire un sospiro profondo, gli aveva risposto.
«Perchè spargere sangue questa notte non ha senso, Khaleen. Luna Piena essere domani. Dorchadass, grande Dio di Tenebra, apprezza sacrificio quando Gealach è gravida. Dio benedirà tutti se offriamo Lui sangue di Leathfear quando Gealach ha pancia piena.»
Non aveva ricevuto l’istruzione della madre alla lingua comune, ma nel suo tono sommesso vi era un’urgenza reale che né a Marbh né tantomeno a Iliham sfuggì. La montagna, respirando con ardore rabbioso, aveva infine decretato «Ea! Ma quando la Luna sarà piena, il ragazzino morirà.» prima di allontanarsi da tutti, voltando le spalle al figlio dei barbari con una veemenza gonfia di promesse. Laila, che aveva nascosto prontamente il pugnale con il quale aveva minacciato, un minuto prima, la figlia di Sherazar, cercò lo sguardo del bambino tra la folla. Lui lo aveva ricambiato e aveva capito che Laila aveva commesso un errore. Ciò che non poteva capire era che a causa di quell’errore si era appena consegnata fra le braccia della morte, né quanto atroce sarebbe stata.

Ingannare la sentinella che si occupava del trasporto dei materiali dalla Gola - il settore più luminoso della prigione chiamato così perché tagliava la Fossa verticalmente attraverso un tunnel incredibilmente lungo, simile ad un pozzo, e che si apriva sulla superficie della terra come una bocca - al mondo civilizzato al di fuori della stessa non fu difficile, non quanto sgozzare quella che si occupava di tenere d’occhio la gabbia nella quale avevano rinchiuso il giorno prima il piccolo orfano. Bastò alzare la gonna, aprire le cosce, soffiare qualche parola ingannevole al suo orecchio, mostrare un sorrisetto malizioso e agitare le lunghe ciglia sopra gli occhi per distrarre Benjen, un uomo grasso, stupido e soprattutto affamato di sesso. Il ragazzino dagli occhi di cristallo e i capelli biondi come il grano la fissava dall’ombra con sguardo attonito. Gli aveva intimato di non muoversi fino al suo segnale, ma non gli aveva detto a che prezzo. Era indeciso se picchiare a sangue quell’individuo o dirigersi verso il montacarichi piazzato al centro di quell’area. Laila ricambiò quello sguardo da sopra la spalla dell’uomo che la stava possedendo con una certa enfasi e, Iliham ci avrebbe messo la mano sul fuoco, con una briciola di pudore. Era a causa di quella, e non della foga con cui l’altro la investita, che le gote le si imporporarono violentemente di rosso. Quel ragazzino aveva solo sei anni e in quei sei anni aveva già compreso tutto quello che un uomo dovrebbe poter apprendere nel corso di una vita intera. Quel giorno, fra i tanti, fu molto utile a tal proposito. Eppure, malgrado tutto, non vi era un altro minuto da perdere. Laila lo sapeva e così anche Iliham che, in risposta alla sua occhiata disperata, si fiondò il più rapidamente possibile verso il montacarichi i cui ingranaggi già cominciavano a rianimarsi, così come le corde intorno alle ruote che lo sorreggevano a tendersi fino allo stremo. Quello sguardo, per giunta, fu l’ultimo in assoluto che si scambiarono, perché non appena ebbe raggiunto la piattaforma di legno dell’elevatore il piccolo Leathfear, così come l’aveva soprannominato la vecchia Sherazar, si accucciò sotto una coperta di lana e sparì alla vista di chiunque, compresa quella di Laila, già annebbiata dalle lacrime.

«Non appena sarai fuori dalla fossa comincia a correre! Scappa! Scappa e non voltarti mai indietro, per niente al mondo! Trova un luogo sicuro in cui rifugiarti e non fidarti di nessuno!» gli aveva sussurrato contro un orecchio Laila, nell’attimo in cui l’aveva tirato fuori dalla gabbia.
E lui correva. Correva come se avesse il diavolo alle calcagna..e forse, in effetti, era proprio così. Fu per questa ragione che Laila da amante divenne ben presto vittima della furia di Marbh, nell’attimo in cui Sheraan gli svelò la verità. Fu per questo motivo che, dopo aver trascorso un intero ciclo di luna al buio, nell’umidità di una cella squallida, fu bruciata pubblicamente nella piazza centrale della Fossa e il suo corpo, o ciò che ne rimase, fu lasciato lì per giorni, come monito per tutti coloro che tradivano la fedeltà del capo degli schiavisti. L’Angelo non aveva potuto salvarla dalla fiamme infernali come accadeva nella storia raccontata da Sherazar pensò, mentre il fuoco la corrodeva, ma forse, immaginò in un ultimo pensiero disperato prima che la vita le venisse strappata definitivamente via dal corpo, non era lei che avrebbe dovuto salvare.
Tutto questo, all’insaputa del ragazzino che, una volta sgattaiolato fuori dal montacarichi – sfuggito, grazie al favore delle tenebre e alla furtività coltivata per tutto il tempo della sua prigionia, allo sguardo della sentinella che si trovava a guardia dell’uscita della Gola - e raggiunto il limitare dei boschi che circondavano quell’apertura, si lasciò avvolgere dall’abbraccio protettivo degli alberi e delle ombre. Quella notte il figlio dei barbari non si fermò mai, né si volto indietro. Quella notte vide per la prima volta in vita sua la Luna, Colei che sembrava proteggerlo in gran segreto dal giorno della sua nascita. La trovò infinitamente splendente e luminosa, piena, come il ventre gravido di una donna. Era la cosa più bella che i suoi occhi di ghiaccio avessero mai visto.
Quando la prima impronta apparve nell’humus del sottobosco era spuntata da poco l’alba. La riconobbe senza troppa difficoltà. Conosceva perfettamente quelle tracce visto che ve ne erano a centinaia all’interno della Fossa e, grazie ai racconti recepiti dagli altri schiavi, sapeva che la foresta di Karinhold pullulava di creature fin troppo simili ai cani addomesticati dagli uomini, solo molto più selvagge, grandi e letali. Era un’impronta di Lupo.


___ ☾ ___


An Mac Tìre – Il Lupo



Le impronte proseguivano per metri e metri. Si stendevano verso il fulcro pulsante di quella rigogliosa e verdeggiante foresta come un sentiero. Non sapeva perché le stava seguendo, ma sapeva che in qualche modo quelle costituivano la sua sola possibilità di salvezza, perché altre direzioni da intraprendere non ne aveva, né possedeva altre mete da rincorrere. Karinhold era un luogo ospitale a suo modo, ma lo sarebbe stato molto di più se quel bambino non fosse cresciuto tra cunicoli rocciosi e prigioni anguste. Per un attimo, un inconsistente e fugacissimo attimo, Iliham provò nostalgia della Fossa. Non credeva che gli sarebbero mai mancati quei corridoi stretti e polverosi, il piccolo giaciglio di paglia nel quale dormiva o il piatto di zuppa tiepida conquistato al termine della giornata, quello che di solito osservava con disgusto e mangiava controvoglia, almeno fino a quel momento. Le suole delle scarpe si consumarono ben presto e così anche la piccola scorta di pane secco che Laila si era preoccupata di raccimolare e di chiudergli all’interno di una bisaccia assieme al diario che conteneva la sua storia. I piedi gli sanguinavano copiosamente da giorni e le mani si riempirono di graffi ed escoriazioni. Le labbra, se possibile, subirono una sorte ben peggiore. Screpolate e ruvide, tanto che in alcuni momenti sembravano volersi staccare dalla bocca, furono il primo segnale evidente della disidratazione che lo colpì in pieno giorno, quando gli alberi si facevano radi e la penombra offerta dalle loro chiome non era abbastanza sufficiente a tenere il sole lontano dalla sua traiettoria. Non sapeva in che mese dell’anno si trovava. Non sapeva nemmeno in quale sfortunata stagione era finito non conoscendo né gli uni né gli altri ma capiva perfettamente quanto quel caldo fosse insopportabile. Decise quindi di avanzare durante la notte, che ben presto divenne la sua sola alleata, non appena il tramonto rigettava i suoi colori accesi e caldi sulla linea dell’orizzonte, e di riposare durante il giorno, quando l’alba si affacciava dietro le prime file di alberi e la foresta si stiracchiava, pronta per l’ennesimo risveglio. Abituare gli occhi al buio in fondo non fu poi così impossibile, ma seguire le tracce lo divenne, specie quando, in una notte più cupa e inquietante di molte altre cominciò a piovere a dirotto.
La pioggia era talmente fitta che guardare al di là del proprio naso fu una vera impresa. Ad ogni passo che consumava ve ne erano altri cinque che perdeva scivolando a terra, tornando in piedi l’istante successivo con le mani e il volto pieni di schizzi di fango. La scelta di attendere la fine di ogni intemperia lo tentava ad ogni minuto trascorso sotto quella che ben presto si tramutò in una tempesta violenta, ma sapeva bene che sarebbe stata la meno saggia da prendere visto che in tal caso il percorso tracciato dal lupo che aveva tanto faticosamente guadagnato fino a quel momento sarebbe scomparso del tutto, cancellato dall’implacabilità della pioggia. Non alzava nemmeno più lo sguardo ormai, troppo concentrato sul terreno bagnato sotto i suoi piedi e fu proprio a causa della poca attenzione che rivolse nei riguardi di ciò che lo fronteggiava che non si accorse della scarpata dinanzi a se. Un piede gli si impigliò nella radice di un albero causando la rovinosa caduta che lo vide ruzzolare per tutta la lunghezza di quel ciglio imprevisto. La testa colpì ripetutamente i massi incontrati sulla pendenza contro la quale il suo piccolo corpo rotolava, guadagnando velocità ad ogni centimetro conquistato prima di fermarsi definitivamente grazie all’impatto che lo fece schiantare contro un cespuglio. Con la faccia immersa nel terriccio e gli occhi chiusi cercò di appurare lo stato dei danni provocati dalla caduta: la schiena gli causò spasmi di sofferenza non appena tentò di rimettersi in piedi, il labbro inferiore era spaccato e le gambe e le braccia indolenzite ma perlomeno era ancora, miracolosamente, vivo.
Quando staccò il volto da terra ed ottenne il privilegio della vista, tuttavia, si rese conto che forse non lo sarebbe stato ancora per molto.
Piazzato ad un soffio di distanza dal suo naso c’era, infatti, il muso gigantesco di un lupo.
La morte assunse una definizione tutta sua in quel momento. Aveva il colore giallo di quegli occhi enormi e vividi immersi nei suoi, il suono di un ringhio minaccioso e cupo, l’odore ferroso di quell’alito caldo che lo avvolgeva e l’aspetto imponente di un corpo animalesco ricoperto di peli. Era un esemplare giovane e magrolino ma i suoi denti erano abbastanza affilati che sarebbero riusciti tranquillamente a sgozzarlo, se solo avessero voluto. E’ la fine, credette, mentre la bestia continuava a fissarlo da quella distanza quasi nulla come se avesse voluto soppesare i punti deboli di una più che succulenta preda. Tuttavia nessuna paura lo colse, nemmeno quando l’animale mostrò maggiormente le gengive rosse e le fauci schiuse e grondanti di bava. Affrontò l’idea della morte con lo stesso coraggio dimostrato dinanzi allo sguardo furioso di Marbh, sfidando quegli occhi dorati senza muoversi di un centimetro o lasciarsi avviluppare da tremori involontari, mantenendo il capo dritto, fiero quanto quello della bestia che lo fronteggiava. La stessa che, dopo un tempo inquantificabile, con un’eleganza che Iliham non aveva mai scorto prima, serrò la bocca e gli voltò le spalle come se nulla fosse, dirigendosi verso il folto dietro il quale subito dopo scomparve, inghiottita dall’ombra. Non riusciva a capacitarsi del perché ma era chiaro che il lupo aveva deciso di risparmiarlo. Il Lupo. Tutto d’un tratto gli tornarono in mente le parole di Sherazar riguardo il suo destino e quelle creature. Seguili, aveva detto, Gealach ti indicherà la strada. E fu a Lei, alla Luna, che si rivolse, alzando gli occhi al cielo alla ricerca di quella palla luminosa prima di tornare a scrutare il bosco, laddove alcuni fasci lunari sembravano volersi aprire un varco fra le foglie. Rimettendosi in piedi si mosse in quella direzione, lentamente e con cautela, portando le braccia avanti per spostare i rami che si piazzavano fra lui e tutto ciò che si trovava dall’altra parte, agevolando la curiosità di Gealach che subito approfittò di quella fessura per avvolgere nella sua luce d’argento il profilo di quella che agli occhi di chiunque sarebbe parsa come una fattoria ma che a quelli di Iliham sembrò nient’altro che una salvezza, oltre che una conferma.
Sherazar non era una semplice megera. Era gli occhi e le orecchie di un Dio misericordioso, perchè le impronte del Lupo seguite fino a quel momento gli avevano appena salvato la vita.


___ ☾ ___


An Saor – L’Artigiano



Il fieno che aveva raggruppato in un angolo della stalla non era certo il massimo della comodità ma a confronto con la terra umida o i sassolini che Karinhold gli aveva offerto come giacigli improvvisati sembrava il paradiso. Un paradiso rumoroso, certo, visto che nel bel mezzo di un sonno che sperava potesse durare ancora a lungo qualcosa di frastornante lo obbligò a svegliarsi di soprassalto. Scattò, ginocchia e mani a terra, con la stessa rapidità di un animaletto selvaggio. E fu quella l’idea che di sicuro balenò nella mente dell’uomo che lo stava osservando dall’altra parte della stalla, armato di un grosso forcone e di uno sguardo truce. Lo sconosciuto era basso e robusto, aveva gli occhi e i capelli neri come il carbone – ad eccezione di qualche filo d’argento che ne sporcava la lucentezza - e lineamenti incredibilmente squadrati, netti, come se qualcuno ne avesse lavorato gli angoli con una lima. Era vestito di panni grezzi e semplici e Iliham comprese di essere appena finito nel suo territorio, così come intuì che se quell’uomo avesse tentato di ucciderlo, di sicuro ci sarebbe riuscito. Ma non lo fece, poiché si limitò a parlare.
«Chi sei e che ci fai nella mia fattoria?» a rispondergli fu il nulla. Aveva un accento duro e un tono di voce basso ma profondo. «Cos’è? Il gatto ti ha morso la lingua per caso?» gli adulti a volte sono così scontati...pensò il figlio dell’Eire, ancora immobile nella sua stramba posizione difensiva. L’altro sbuffò violentemente. Stava cominciando ad irritarsi, era ovvio, ed il forcone che impugnava non prometteva nulla di buono per il suo sguardo scettico. Accennò qualche passo in avanti, prudentemente, e a quel punto il bambino reagì ringhiando nella blanda imitazione di quello che, solo qualche ora prima, aveva visto fare al lupo incontrato nella foresta. Non si fidava di lui, non si fidava di nessuno e l’uomo parve capirlo immediatamente, perché di fronte a se aveva un ragazzino che mimetizzava una profonda paura dietro un misto di aggressività e audacia. Era il primo ad averlo capito. I suoi capelli erano biondi, estremamente simili alle spighe rimaste impigliate sul suo capo, arruffati e sporchi di fango. Le sue labbra erano spaccate ed il sangue raggrumato distorceva perfino la linea perfetta di quella bocca. La sua faccia era piena di tagli, così come le braccia e le gambe, disseminate di lividi e cicatrici. I vestiti che indossava, se ancora potevano definirsi tali, erano lerci e si reggevano a stento su quel corpo gracile, penzolando come pezzi di pelle da una ferita aperta. Ma i suoi occhi erano di un azzurro tanto sconvolgente e puro che il rischio di rimanerne accecati era continuo.
«Sei solo?» domandò all’improvviso lo sconosciuto, gettando occhiate furtive nei dintorni prima di tornare su di lui. Iliham, dopo aver superato l’ostacolo della ritrosia, fece sì con il capo in risposta a quella domanda. «Hai fame?» cavoli se ne aveva, per poco non gli si vedevano le ossa! Iliham agitò la testa su e giù con energia. Aveva una fame da lupi. L’uomo lo guardò con scetticismo per un’ultima volta prima di togliersi definitivamente dal volto la maschera di gelo e risolutezza trattenuta fino a quel momento. Emise un lungo sospiro ed un verso strambo risuonò nell’aria, simile al grugnito di un maiale.
«E va bene..» convenne «Per questa notte potrai restare qui se ne avrai voglia, ho preparato uno stufato di carne e dovrebbe bastare per entrambi » si arrese, ma non appena gli occhi di Iliham si illuminarono si costrinse a smorzare gran parte del suo entusiasmo.
«Bada bene ragazzino..non ho detto che puoi restare con me in eterno, né che potrai rimpinzarti con il mio cibo tutte le volte che vorrai. Ho parlato di una notte, di una notte soltanto, a patto che tu non gironzoli liberamente per la mia fattoria, non infastidisca gli animali e non combini guai, siamo intesi?» ma fu del tutto inutile il suo tentativo di apparire burbero e scontroso visto che quegli occhi di ghiaccio l’avevano già conquistato.
Lo fece mangiare, grattò via lo sporco da quel corpo ossuto e infine lo condusse in una piccola stanza. Mentre il ragazzino si rivestiva con i panni rimediati dallo sconosciuto quello lo guardava con un’attenzione che a Iliham non sfuggì. Sembrava incuriosito dall’albero di cicatrici che si arrampicavano lungo la sua schiena diafana ma ancor più da quella che riposava sul suo addome, piccola ma distinguibile. Nessuno aveva mai voluto svelargli il significato di quel simbolo alla Fossa. O forse nessuno degli schiavi lo conosceva, ad eccezione di Sherazar, visto che la vecchia Bean Feasa ne sapeva una più del diavolo. Quando Iliham si infilò nel letto caddé fin da subito preda di un sonno che, per la prima volta dopo tanto tempo, non fu interrotto né da sogni né tantomeno dai suoi consuetudinari incubi.

In quello stesso momento il padrone di casa stava sfogliando le pagine del diario trovato nella bisaccia appesa al collo del ragazzino, quello di cui nemmeno Iliham si era reso conto tanta fu la premura di Laila di nasconderlo sul fondo della borsa e di avvolgerlo attorno ad una piccola coperta di lana. Lesse senza alcuna difficoltà la sua breve ma sofferta storia e dopo averlo fatto rimase a fissare a lungo il soffitto della camera. Quella notte Ray non riuscì a chiudere occhio.

«Ti ostini ancora a non voler parlare, mh? E va bene.. » esclamò il mattino seguente, mentre Iliham ricambiava quell’occhiata con la fierezza di un bambino che voleva fingersi un adulto, senza aprir bocca. Ecco, sta per cacciarmi via, pensò, prima di udire il resto di quel discorso «..vorrà dire che imparerai a fare anche questo, oltre a mangiare come si deve e ad obbedire ai miei comandi quando ti chiederò di fare qualcosa in tutto il tempo che rimarrai qui. Non sarà semplice. Dovrai lavorare duramente, aiutarmi nella manutenzione di questa vecchia casa, pensare agli animali, all’orto e a tutto il resto. Ti insegnerò a leggere, a scrivere e a fare calcoli. Ti insegnerò molte altre cose e non ho intenzione di sentire lamentele da parte tua. Nemmeno mezza volta..» Ray si rese conto troppo tardi di quanto tristemente buffo fosse il contenuto di quell’ultima frase, ecco perché si corresse subito dopo «Beh non appena imparerai a parlare, ovviamente…»
Quella era la prima e forse anche ultima casa che il fato gli avrebbe concesso, pensò Iliham due ore più tardi, osservando alcune galline dall’altra parte del recinto mentre Ray lo spiava dalla finestra della cucina, con il cuore che gli si faceva sempre più piccolo.
I primi giorni non furono facili. A dire il vero non lo furono nemmeno i seguenti, ma poco alla volta entrambi impararono a capirsi, a convivere assieme ma anche a ritagliarsi degli spazi per loro stessi, nel rispetto delle esigenze reciproche, visto che sembravano aver necessariamente bisogno del conforto dato dalla solitudine di tanto in tanto. Erano troppo abituati a quell’aspetto che apparteneva alle loro vecchie vite da non riuscire a metterlo del tutto da parte. Vi erano dei momenti in cui, semplicemente, intuivano di doversi allontanare l’uno dall’altro e fu proprio grazie a quei momenti se il legame fra di loro andava ad intensificarsi di volta in volta. Ma vi era qualcosa che non era ancora cambiato nel frattempo. Qualcosa che sporcava la superficie di quella perfezione apparente come un puntino difficile da lavare via. Il figlio dei barbari non si fidava di Ray. Erano trascorsi già tre mesi dal giorno in cui Iliham si era intrufolato di nascosto nella fattoria e in tutto questo tempo il ragazzino ancora non aveva parlato, nemmeno una volta, ma a Ray la cosa non sembrò pesare perché immaginava che, prima o poi, avrebbe parlato di sua spontanea volontà e Iliham, nell’alcova del suo mutisto, sembrava apprezzare sinceramente il rispetto che quell’uomo dimostrò nei suoi riguardi.
Ogni mattina, dopo la sveglia, lo aspettava una colazione abbondante a seguire la quale, tutte le sante volte, il ragazzino si recava verso il lavatoio esterno della fattoria per lavare piatti e pentole. Lo riteneva un compito da donne e lo odiava, lo odiava tremendamente, ma lì di femmine, al di là della capra che ribattezzò fra se e se col nome di Namiria – era così che si chiamava la madre di Laila, come gli aveva raccontato lei stessa un giorno, perciò quel nome gli era sempre piaciuto – e delle galline non ve n’erano, perciò qualcuno doveva pur occuparsene. Dopo poco tempo le braccia sottili gli dolevano ma Ray diceva che quello era un bene, visto che stava a significare che i muscoli si mettevano all’opera e che si trattava di un esercizio utile per il quale un giorno l’avrebbe ringraziato. Iliham era scettico a riguardo ma non obiettò mai, nemmeno con un cenno del capo, continuando a seguire i dettami di quell’uomo che, mentre lui si occupava di riempire le mangiatoie degli animali e di pulire le loro stalle, si dissolveva sempre dietro l’angolo della casa, ad una certa ora del giorno, verso un luogo che al ragazzino non era concesso raggiungere, visto che gli era stato impedito di spingersi al di là del cortile esterno della fattoria. Eppure si sa, la curiosità dei bambini è sempre tanta e Iliham non ne era di certo scevro. Così un giorno decise, consapevole del guaio in cui si stava cacciando, di seguirlo fino ai margini del bosco. Ray non sembrò rendersi conto di nulla quando, mentre lui scompariva all’interno di una piccola casupola, Iliham raggiunse una finestra, arrampicandosi su una botte per sbirciare all’interno di quella costruzione. La meraviglia si estese dinanzi al suo sguardo sbalordito come se niente fosse, luccicando attraverso il riflesso dei vetri.
Lame di ogni tipo penzolavano dalle pareti e dal soffitto, alcune grandi e spesse, altre molto più sottili e acuminate, altre ancora simili a dei coltelli elaborati. Messi in fila su di un tavolo vi erano degli strani copricapi in metallo che Iliham non aveva mai visto prima, così come non aveva mai visto prima né quelli che somigliavano a dei piatti giganti in legno o acciaio appoggiati al pavimento e né quelli che apparivano come pezzi scomposti di vestiti, sempre in metallo, appesi a dei manichini di paglia. L’altra parte della stanza era dedicata a tutt’altro tipo di oggetti che allo sguardo del ragazzino parvero molto più familiari: cassapanche, testate di letti, bauli e comodini in legno, ma anche cose più piccole come giocattoli, vasi, brocche e recipienti. Oltre gli stessi, su un tavolaccio grezzo, riposavano strumenti di ogni tipo che andavano dai martelli alle pinze, dai pennelli alle lime e così via. Il fuoco di un grande caminetto sembrava stabilire la linea di confine che separava quei due mondi, quello minaccioso e splendente dall’altro più quieto e benevolo. Placido sul cuscino di una sedia a dondolo ronfava un gatto ciccione e spettinato, dal colore indefinito. Ma che diamine di posto è questo? Si stava domandando Iliham, prima che un colpo di tosse giunto direttamente dalle sue spalle lo privò dell’equilibrio necessario a reggersi sulla botte che presto rotolò a terra assieme al suo corpo.
A fissarlo dall’alto della sua imponente statura con sguardo torvo c’era lui. L’Artigiano.
[Modificato da Aileen. 29/06/2013 14:14]
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