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Iliham

Ultimo Aggiornamento: 15/12/2013 15:07
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Città: ACQUAFONDATA
Età: 34
Sesso: Maschile
22/06/2013 19:55

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Cairdeas – Amicizia



“Leggende e racconti dall’Asgarðr” recitava il titolo del voluminoso libro che Iliham aveva appena sfilato a stento dallo scaffale più alto della libreria, arrampicandosi su una sedia. Non era in grado di attribuire un senso a quelle lettere visto che ancora non sapeva leggere, ma sembrava comunque incuriosito dall’immagine in rilievo che si trovava sulla copertina di cuoio di quel volume. Si trattava di un grande lupo costretto in catene.
«Quando ti ho ordinato di ripulire la libreria, non ti ho chiesto anche di perdere del tempo inutilmente!» Ray era rientrato in casa in quell’istante e dal suono aspro della sua voce non sembrava in vena di scherzi. Le cose andavano avanti così da un bel po a dire il vero, più precisamente dal giorno in cui Iliham era stato scoperto a curiosare dalla finestra della fucina senza permesso. L’artigiano non gli aveva più rivolto sguardi benevoli o l’ombra di un sorriso da allora, e se gli parlava era solo per dargli dei compiti da sbrigare.
Il figlio dei barbari, mantenendo lo sguardo sul libro vi passò sopra un panno asciutto, accuratamente, per liberarlo di tutta la polvere in eccesso intrappolata sul suo rivestimento esterno. Ripeteva quelle operazioni da più di una settimana ormai. Tutti i pomeriggi, dopo l’ora di pranzo, doveva occuparsi della libreria e dei suoi tomi. Vi erano otto scaffali ed ognuno di essi riusciva a contenere almeno una trentina di libri per un totale approssimativo di...non lo sapeva, ma erano tanti, fin troppi per i suoi gusti. Trasportarli verso il tavolo non si era rivelata un’operazione semplice, soprattutto quelli particolarmente pesanti come il libro che mostrava il lupo incatenato sulla sua copertina. Le braccia gli bruciavano per la fatica ma tutte le volte in cui tentava di riposarsi veniva rimproverato immediatamente dall’uomo che, una volta terminato il suo lavoro, tornava in casa per schiacciare un pisolino sulla poltrona..o fingere di farlo.
Era stato piuttosto chiaro: «Tutti i giorni, non appena avrai finito di dar da mangiare agli animali, ripulire la cucina e di lavare i piatti, ti occuperai della libreria. La svuoterai, la pulirai da cima a fondo così come farai per tutti i libri che contiene. Una volta fatto questo li sistemerai nell’ordine in cui li hai trovati e solo allora potrai sederti a tavola per cenare.»
E Ray sembrava piuttosto intransigente a riguardo. Ma il giorno che l’uomo attendeva da tempo infine giunse, un giorno apparentemente identico a tutti gli altri. Non era il giorno in cui Iliham tentò di mostrarsi orgoglioso, rimanendo fino a notte fonda sui libri e rallentando volutamente il ritmo di quelle operazioni solo per andare a letto a stomaco vuoto nella speranza di colpire l’artigiano e la sua coscienza visto che queste cose, nel corso di quel lungo ed estenuante mese, erano già accadute. Era il giorno in cui Iliham, per la prima volta da quando si trovava alla fattoria ma anche nella sua vita, parlò.
«NO!» gridò di punto in bianco, stringendo i suoi piccoli pugni ai fianchi come faceva tutte le volte in cui era arrabbiato. La sua voce era limpida. Era la voce di un bambino. Era la voce di un ragazzino che aveva appena vinto una grande battaglia con se stesso. E lo sapevano entrambi. Ma nessuno dei due accennò niente a riguardo, anzi, quando Ray decise di guardarlo in faccia, finse una tranquillità che a Iliham fece saltare i nervi.
«No...cosa?» domandò, nascondendo la gioia dietro una pennellata di dubbio.
«No...libreria!» rispose il ragazzino, compiendo uno sforzo immane. Conosceva esattamente tutti i termini della lingua comune, così come la capiva alla perfezione, eppure esprimersi ad alta voce era diverso, era difficile, anche se non quanto ammettere una verità più che ovvia. Aveva appena buttato giù un muro, una lastra di ghiaccio che custodiva pesantemente il suo essere. Si era appena messo a nudo. Aveva scelto di parlare e quindi anche di fidarsi e sperava tanto di non doversene pentire, perchè Laila gli aveva fatto promettere di non commettere mai quell’errore. Non era riuscito a mantenere la promessa ma malgrado tutto, in quel preciso istante, provò una pace incommensurabile.
«Perché?» domandò, avvicinandosi di qualche passo all’uomo.
«Perché cosa?» chiese l’altro, anche se in realtà aveva già capito tutto.
«Perché d..devo pulire libreria s-se..» incespicò sulle sue stesse parole ma Ray ben presto gli andò incontro.
«Perchè devi pulire LA libreria se..è già pulita?» Iliham fece sì col capo.
«Per lo stesso motivo per cui prima di seminare bisogna arare la terra.» Lui continuava a non capire. A quel punto Ray lo invitò a seguirlo con un gesto e, in silenzio, si diressero entrambi verso l’esterno della casa.

«Anche io?» domandò il ragazzino in un soffio, fissando con sguardo incredulo un dondolo di legno finemente intagliato. Si trattava solo di uno dei tanti capolavori che aveva attirato la sua attenzione nell’attimo in cui avevano superato assieme la soglia delle fucine.
«Anche tu cosa?» perfino in quel caso Ray aveva capito cosa intendesse il ragazzino ma preferiva farlo parlare ad ogni occasione.
«A-anche io..potrò..creare..vita?» sì, perché per i suoi occhi cristallini quegli oggetti sembravano tutti vivi. Ognuno di loro possedeva una storia ed un’origine tutta sua. Quelle opere ingegnose erano state plasmate dalle mani sapienti dell’uomo che lo affiancava e che, per un istante, guardò il ragazzino che si muoveva attentamente fra i tavoli del laboratorio con un misto di stupore e muta letizia.
«Forse, un giorno...ma prima dovrai mettere altri muscoli su quelle braccia!» rispose Ray con affettuosa ironia. Iliham si voltò per guardarlo con aria impaurita al suono di quella frase.
«Li-libreria?» chiese con riluttanza. La risata di Ray riecheggiò per tutta la fucina, tanto rumorosa da risvegliare perfino il gatto ciccione che, infastidito, compì un balzo per scendere dalla sedia e dirigersi verso l’esterno con andatura quasi offesa.
«No, no..niente libreria...per questa settimana!» la risata dell’artigiano si era appena stemperata in una piega gioconda che ben presto contagiò anche Iliham.
In quel preciso momento, da un semplice sorriso, nacque la loro amicizia.

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Oideachas – Istruzione



Otto anni. Erano trascorsi otto lunghi anni fra attimi di felicità genuina e complicazioni inevitabili. Ray non aveva mai avuto a che fare con un adolescente prima d’allora e proprio per questo non si era mai curato troppo delle lamentele rivolte dalle madri incontrate a Bjorg - il villaggio più vicino alla fattoria e che spesso visitava per affari dal momento che gran parte dei suoi clienti abitava lì – ai loro figli ‘scapestrati e lunatici’. Non tutte le parole di quelle vecchie pettegole sono gettate al vento allora, si era ritrovato a credere un giorno, con lo sguardo d’onice immobilizzato sulla schiena del figlio dei barbari le cui cicatrici erano quasi del tutto scomparse, mimetizzate nel candore della pelle per far spazio ad un intreccio di muscoli a dir poco invidiabile per un ragazzo della sua età. La manutenzione costante della fattoria, l’aiuto che prestava di continuo a Ray nelle fucine - spingendo su e giù il mantice durante la forgiatura di qualche arma, trascinando le opere che l’artigiano sfornava da quella piccola casupola al carretto al quale era legato il suo vecchio cavallo da tiro e lucidando le lame di volta in volta – era stata utile, proprio come l’uomo gli aveva anticipato tempo prima, non solo a nutrire quel corpo di una notevole massa muscolare e ad irrobustirgli le ossa ma anche ad alimentare la forza che in principio scarseggiava, compensata da una furtività e da un’agilità che adesso, per forza di cose, non gli appartenevano più. Le braccia, massicce e robuste almeno quanto le gambe, non gli procuravano più i dolori o i fastidi di un tempo, tonificate dalla perseveranza con cui ogni mattina, prima del sorgere del sole, - dopo aver offerto una carezza a Namiria, la capra divenuta ormai vecchia e fragile e che rispondeva a quella forma d’affetto belando ripetutamente dal recinto - raggiungeva i margini del bosco per correre attorno a tutta la fattoria almeno una ventina di volte e dalla costanza con cui, dopo la corsa, si impegnava nell’esecuzione di alcuni esercizi che comprendevano addominali, flessioni e piegamenti di vario tipo.
Ma per divenire un uomo completo anche lo spirito e la mente vanno nutriti, ripeteva di continuo Ray. E così Iliham si apprestò senza lamentele allo studio approfondito di tutti i campi della vita ai quali l’artigiano, divenuto oltre che suo amico anche suo mentore, giorno dopo giorno si curò di iniziarlo. Imparò a leggere e a scrivere, a far di conto e, malgrado non fu affatto semplice per lui, a parlare, destreggiandosi perfettamente sia nell’uso della lingua comune sia in quello del gaelico irlandese, i cui suoni gutturali e forti per certi versi sembravano molto più affini alla sua natura, come se li conoscesse da sempre e fossero stati ideati appositamente per quella gola. Ray si occupò di istruirlo alla storia del suo paese, offrendo in pasto a quella mente fertile i concetti basilari che gli permisero di estenderla e di renderlo molto più curioso di quanto non fosse già di suo. La sera, difatti, quando il crepuscolo anticipava il sorgere delle tenebre, si sedeva davanti alla luce del caminetto e, con gli stessi libri che in passato lo avevano fatto tanto penare appoggiati fra le gambe, leggeva per ore e ore, divorando una quantità smisurata di pagine fino a notte fonda. L’erbologia non sembrava interessarlo, così come non lo interessavano i culti popolari o i tomi che contenevano la genealogia di tutte le casate nobiliari che si erano succedute nell’Irlanda del nord fino a quel momento. Ciò che invece attirava particolarmente la sua attenzione era il contenuto del volume più grande della libreria di Ray, quello con la forma di un lupo in catene sulla copertina. La mitologia norrena in qualche modo sembrava affascinarlo, tanto che arrivò a conoscere i nomi e le vicende di tutti gli Dei nordici di cui narrava quel libro: da Thor a Loki, da Miðgarðsormr a Sleipnir, da Fenrir a Odino. Ecco, in particolar modo fu quest’ultimo a svegliare gran parte del suo interesse, non tanto per la storia che lo riguardava quanto per il simbolo che un giorno comparve dinanzi al suo sguardo sull’angolo di una pagina alla quale non aveva mai fatto caso prima. Si trattava di Gungnir che, secondo la storia, era la lancia di Odino, fabbricata dai nani per permettere al re degli dei di combattere la battaglia finale nel mondo, il Ragnarǫk. Si trattava, per giunta, dello stesso identico simbolo che aveva avuto sugli addominali fin dalla nascita, ormai simile ad un tatuaggio ma sorto come una ferita divenuta in seguito cicatrice. Qualcuno gli aveva lasciato quel marchio addosso. Una persona che all’epoca doveva conoscere bene gli Dei del Nord e tutte le vicissitudini che vi ruotavano attorno quanto Iliham li conosceva adesso.

«Tu credi negli Dei?» chiese un giorno il ragazzo, mentre Ray tentava a tutti i costi di accendersi la pipa e fuori infuriava una tempesta di neve. Dal modo in cui l’artigiano ricambiò il suo sguardo, Iliham intuì che non si aspettava quella domanda e che allo stesso tempo ne era rimasto colpito.
«Credo negli Dei quanto loro credono negli uomini. A Odino, Loki, Fenrir..» ricalcò ogni nome con un’enfasi teatrale e cupa che gli ricordò molto la voce della vecchia Sherazar, quando si apprestava a narrare una delle sue tante storie. «..non importa un fico secco se tu ti spacchi la schiena ogni santo giorno. Se sei figlio di una capra o di una vacca o se vieni pugnalato alle spalle nello squallore di un vicolo. Anche se piangi, ti disperi o preghi loro se ne staranno sempre lì ad osservarti, trionfanti nell’indifferente alterigia che li riveste, con occhi divertiti e sorrisi rubicondi dalle cime dell’Asgarðr, brindando alla tua distruzione. E tu ci credi?» domandò senza pretese.
«No…ma credo nei sogni»
Quella notte, per l’ennesima volta, sognò di entrare nei panni di un Lupo. Avvertiva tutti gli odori come se fossero reali, percepiva le cose come non avrebbe mai potuto fare nella sua forma. Vedeva nell’oscurità con la stessa precisione con cui un paio di occhi umani avrebbero visto perfettamente il mondo che li circonda sotto la luce del sole. Rincorreva qualcuno e non appena si avvicinava a quella figura indistinta sentiva il sapore del suo sangue nella bocca. Si fermava, stanco per la caccia infruttuosa, sul bordo di un fiumiciattolo d’acqua cristallina con la lingua che penzolava per la sete eppure, non appena si specchiava nel suo riflesso, non vedeva altro che un volto d’alabastro ricoperto da una cascata di capelli biondi, corti fino all’altezza delle spalle, e adornato da un paio di occhi cristallini vispi e curiosi. Era il suo volto. Ma quei sensi fin troppo sviluppati non gli appartenevano. Tutte le volte si svegliava di soprassalto, madido di sudore, trattenendo l’irregolarità dei respiri contro il cuscino senza che sullo stesso apparissero tracce di rubino liquido, anche se le avvertiva ancora nella bocca. Avrebbe voluto prolungare i sogni il tempo necessario a scorgere il volto della sua vittima ma ogni singola volta, spossato dalla veridicità apparente dei suoi incubi, crollava fra le lenzuola nella stretta di un sonno concitato che nemmeno quella notte faticò ad arrivare.
Nei mesi seguenti Iliham continuò altre domande al suo mentore che, mai parco di risposte, saziava di volta in volta la sua curiosità. Quando gli chiese cos’era la morte l’artigiano lo condusse nella stalla e, armandolo di un pugnale affilato, lo invitò a metter fine alle sofferenze della povera Namiria. Il ragazzo inizialmente si rifiutò di farlo ma quando Ray gli spiegò che sarebbe morta comunque fra gli strazi di lì a breve si decise, tagliandole la gola con un colpo netto. La sua prima Morte. E capì. Si trattava di una forza necessaria almeno quanto la sua gemella, Vita, a tenere i piatti del mondo perfettamente equilibrati. Un giorno il ragazzo, che con il tempo si preparava a divenire un uomo, gli chiese cos’era l’amore e a quel punto l’artigiano gli indicò la strada per raggiungere un edificio in pietra sorto sui confini occidentali di Bjorg, vicino ai margini della foresta. Fu allora che la vide per la prima volta.

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Grà – Amore



Lo scontro fu inevitabile, ma dei due a rimetterci fu solo l’altra dal momento che l’impatto contro il suo torace robusto gli offrì niente di più che una sensazione simile al solletico. Lei invece cadde a terra, colpendo i ciottoli sottostanti con le natiche.
«Scusami» bofonchiò, piegandosi sulle ginocchia per cercare di aiutarla a rimettersi in piedi.
«No scusami tu! Sono terribilmente distratta, la mamma me lo dice sempre: “perché non guardi dove metti i piedi una volta tanto! Insomma, vuoi scendere da quelle nuvole si o no?”Accidenti, mi dispiace! Parlo sempre troppo e non riesco mai a mettere un freno alla lingua. E’ un difetto che ho fin dalla nascita. Cioè..uno dei tanti» riuscì a guardarla in volto solo allora, concentrandosi su di lei mentre le tendeva una mano. A rispondere a quello sguardo curioso furono due gemme d’argento, fuse nello spazio di un paio d’occhi leggermente allungati in direzione delle punte. Onde di capelli neri come le tenebre fiorivano dal suo capo, circondando un ovale dai tratti infantili la cui pelle era bianca come il latte e le cui labbra piene, dolcemente incurvate verso l’alto, erano rosse come ciliegie. Quel sorriso gli concesse l’amabilità di un brivido. Un brivido che non aveva mai provato prima d’ora. Quando l’altra gli strinse la mano accettando la sua stretta gli ci volle più di qualche minuto per riprendersi.
«Va tutto bene?» domandò lei. Sembrava seriamente preoccupata. Iliham per tutta risposta compì un vago cenno del capo. Oh no, stava correndo il rischio di dimenticare tutto! Com’è che si faceva a parlare? Ah ecco, doveva semplicemente muovere la lingua sul palato e ricollegare il cervello alla bocca.
«Sì sì è solo che mi sembrava di aver visto un’ombra in fondo alla strada e allora ho pensato che forse sarebbe stato meglio rimanere bassi per passare inosservati.» Che scusa ridicola! Perlomeno tutte quelle parole messe in fila rapidamente pareggiarono il silenzio che l’aveva preso alla sprovvista un attimo prima. Lei reagì in modo inaspettato, sgranando gli occhi e scattando nella sua direzione per stringersi a lui con forza.
«Un’ombra? Dove? Ne sei proprio sicuro? Me l’aveva detto la mamma di non girare fra i vicoli a quest’ora della notte» bisbigliò, tremando come una foglia contro il suo corpo. Non la sfiorò. Non ne aveva il coraggio, lui che non temeva quasi niente e nessuno sembrava aver paura di una semplice ragazzina. No, non era semplice. Era perfetta.
«Credo che se ne sia andato..» mentì. E così lei sciolse lentamente la presa mentre lui cercava di ricomporsi, immobilizzato come un blocco di ghiaccio.
«Che fortuna! Scusami, so di essere una vera fifona ma una volta, quando ero piccola, mia sorella mi ha fatto prendere uno sp...oh perdonami, perdonami tanto, lo sto facendo di nuovo, parlo sempre a sproposito!» scrollò il capo con energia mentre abbassava lo sguardo.
«N-non, non importa..mi piaci.» che cosa aveva appena detto? Si corresse immediatamente, maledicendosi per la sciocchezza appena compiuta.
«Cioè volevo dire che mi piace il tono della tua voce...» così andava meglio. Forse. Lei alzò la testa e gli occhi grigi le si illuminarono. Avevano appena risucchiato tutta la lucentezza delle stelle.
«Davvero? Grazie» lui non sapeva cosa dire e allora lei intervenne nuovamente.
«Oh che sbadata, non ti ho ancora detto il mio nome. Io mi chiamo Kyra e tu?»
«Iliham» Kyra. Il suo primo Amore. E capì. Si trattava di una forza straordinaria che metteva in moto tutti i satelliti e che serviva a mantenere in vita il cuore. Col suo ci riuscì perfettamente.

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An Gadaì – Il Ladro



In quel momento Iliham e Ray si trovavano sulla strada del ritorno. Il ragazzo gli parlò a lungo del luogo in cui Kyra lo aveva accompagnato e che il mentore gli aveva indicato. Un posto stranamente esotico e pieno di donne coperte solo dalla leggerezza di qualche velo, ma gli parlò soprattutto di Kyra, della sua bellezza e dolcezza e di quello che aveva provato nell’attimo in cui lei gli aveva stampato le sue morbide labbra sulla bocca.
Poi rimasero zitti entrambi, finché il figlio dei barbari non si decise a domandare :
«Ma che posto è quello?» L’artigiano rise di gusto al suono di quella domanda.
«Le chiamano case del piacere. Gli uomini pagano le donne per passare qualche ora in loro compagnia»
«E da quando in qua uno deve pagare per avere compagnia?» Era una domanda ingenua ma in fin dei conti giustificata se giunta da un ragazzo che aveva passato i primi sei anni della sua vita in una prigione e gli altri otto in una fattoria in compagnia di capre, galline, cavalli e di un vecchio.
«Ma non è una compagnia qualunque. E’ speciale.» non sapeva che altro dire.
«Lo è stata anche quella di Kyra e lei non mi ha chiesto dei soldi.»
«Perché evidentemente Kyra non è una prostituta.»
«E a che servono le prostitute se ci sono ragazze come Kyra?» No, non aveva bisogno della risposta di Ray in quel caso. Non vi erano altre ragazze come Lei.
«Perché mi hai fatto andare lì? Io volevo capire cos’era l’amore. Non il piacere.»
«Perché per capire l’amore, devi prima capire cosa non è.» Iliham rimuginò a lungo sul senso di quella frase criptica. Era proprio quel genere di risposta che doveva aspettarsi da un tipo come lui.
«E non si possono avere entrambi?» il suo tono si sporcò per la prima volta di un’ombra maliziosa della quale si pentì l’istante successivo. Ray gli sorrise con benevolenza, allungandogli un braccio sulle spalle proprio come avrebbe fatto un padre.
«Certo che sì ragazzo mio. Certo che sì...» Le loro risate si mescolarono vivacemente nell’aria e per un bel po continuarono a procedere in direzione della fattoria con dei sorrisi pieni stampati sulle labbra. Ma la gioia non può durare in eterno e con loro non fece eccezioni.

La casa era sottosopra. Eppure i mobili rovesciati a terra, i parecchi suppellettili distrutti, gli animali scomparsi dai loro recinti assieme all’oro che Ray aveva raccimolato per anni, non li colpirono quanto lo fece la vista della fucina completamente svuotata. Non era rimasto più niente, nemmeno gli strumenti da lavoro, se non il gatto ciccione che, visibilmente terrorizzato, si era nascosto sotto l’unica parte lasciata intatta all’interno dei laboratori: la sua preziosa sedia a dondolo. Non avevano più cibo, né protezione. Non avevano più libri, tranne il diario che Ray aveva gelosamente custodito in un punto talmente ben celato da riuscire a scampare a quella razzia inaspettata. Li avevano privati di tutto. Perfino dei sogni. Ladri. Era la parola che l’artigiano continuava a bisbigliare da giorni, preda di una disperazione che tentò in tutti i modi di sminuire nella speranza di non alimentare troppo l’ombra che aveva scorto distintamente nello sguardo di ghiaccio di Iliham, quella notte. Era uno sguardo spento, assente e per questo ancor più pericoloso di quanto non lo fosse quando si riempiva di rabbia. Ray cercò di costringerlo in tutti i modi a mangiare ciò che il ragazzo raccoglieva nei boschi , merito dell’esperienza vissuta in quella stessa foresta anni prima, ma senza riuscirci. Iliham aveva fame, era ovvio, ma quello che riusciva a portare a casa, di ritorno dalle sue esplorazioni, era sempre troppo poco e non aveva intenzione di privare l’artigiano di cibo, perché si convinse di essere forte abbastanza da riuscire a convivere con quel buco nello stomaco ancora per un po. Inoltre era giovane e in salute, differentemente da Ray, i cui primi acciacchi già si stavano presentando sulla soglia dei sessant’anni appena compiuti...
Lasciò trascorrere altri due giorni prima di rendersi conto che non era possibile andare avanti così. Doveva fare qualcosa. Doveva farlo per quell’uomo che lo aveva tirato su con tanto affetto, senza fargli mancare mai niente nel corso di tutti quegli anni.
Fu questo che disse a se stesso la prima volta che rubò. Si trattava di due semplici mele della cui scomparsa nessuno si rese conto, strappate con un gesto rapido da uno dei tanti banchi del mercato che tutte le mattine si rianimava nella piazza principale di Bjorg. Il senso di colpa era grande, incredibilmente grande, specie perché fu costretto a mentire a Ray…
«Ho parlato con un pastore che vive fra le colline, a poca distanza dal villaggio. Ho cercato di spiegargli la nostra situazione e lui si è mostrato molto comprensivo. Ha detto che cercava da anni un ragazzo forte e in gamba ma che tutti quelli che ha assunto si sono dimostrati sempre dei delinquenti. Tutte le mattine dovrò recarmi da lui e portare le sue pecore al pascolo. Ha detto che se sarò onesto e competente mi pagherà e anche profumatamente!»
Non aveva potuto fare altrimenti, consapevole del fatto che un comportamento del genere il mentore non l’avrebbe mai accettato, nemmeno a costo di morire di fame. Era un uomo onesto e allora Iliham si caricò sulle spalle il peso di una scorrettezza necessaria. Arruffava tutto ciò che riusciva a prendere e la furtività che l’aveva abbandonato anni prima, per sua fortuna, veniva quasi sempre compensata dalla distrazione dei mercanti o dal rumore assordante della folla.
Una mattina, però, le cose non andarono per il verso giusto. Si accorse troppo tardi della presenza di un secondo mercante dall’altra parte del bancone. Non essendo occupati con nessun cliente per gli occhi dell’altro fu facile trovare l’anomalia nel mucchio di prodotti esposti. La mano di Iliham aveva appena agguantato un pollo dall’aspetto sano, già spellato e pulito e quando l’uomo gridò «Al ladro! Al ladro!» il panico insorse. La gente si voltava ovunque per cercar di capire cosa stesse succedendo e allora lui si intrufolò nella calca, non avendo altra scelta, sfuggendo per un soffio alla mano grassoccia del mercante che già mirava al bavero della sua camicia, ricavandosi un passaggio tra la moltitudine di gambe e piedi che più di una volta gli calpestarono le mani. Il mercante continuava a correre e a sbraitare, imperterrito e soprattutto inferocito «ACCIUFFATE QUEL DELINQUENTE! »
A Iliham quel villaggio non era mai sembrato così piccolo come quel giorno. Tutti i muri davano l’impressione di restringersi attorno a lui e quell’accozzaglia di corpi sudati non faceva altro che spintonarlo in ogni direzione. Perse ben presto il senso dell’orientamento. Non aveva più una meta. Sapeva solo di dover fuggire e di doverlo fare con la stessa rapidità con cui scappò dalla prigione, anni prima. Poi, tutto d’un tratto, quattro paia di braccia lo avvinghiarono prepotentemente e lui non potè far nulla per fermarle. Lo avevano colto alla sprovvista. Nel giro di un secondo si ritrovò all’interno di un vicolo buio e lercio, sovrastato frontalmente da un individuo che gli premette una mano contro la bocca con forza mentre un altro lo bloccava contro la parete retrostante. Il ragazzo di cui riuscì a scorgere il volto aveva una faccia scavata e abbronzata, un paio di occhi verdi ed una zazzera di capelli castano scuri, ma soprattutto era armato di un pugnale e di uno sguardo tagliente con cui gli intimò, come se la punta dell’arma immobilizzata ad un soffio dal suo collo non bastasse, di star zitto. Le parole che seguirono confermarono quell’idea.
«Non dire una parola o sei morto» bisbigliò, cercando di assumere a tutti i costi un’aria minacciosa. Il suo compagno, quello che si trovava alle sue spalle, mormorò concitatamente.
«Che dobbiamo farne di lui?»
Il tizio dagli occhi color foresta premette con più decisione la punta del pugnale contro il suo collo, tanto che Iliham riuscì ad avvertire un rivolo di sangue colargli sulla pelle. Il figlio dei barbari non provò paura e continuò a sostenere lo sguardo dell’altro come se volesse cercare di capire fino a che punto era disposto a spingersi. Ma poi lo sconosciuto compì un gesto del tutto inaspettato. Allontanò la punta dell’arma dal suo collo, la rigirò e gli rivolse l’impugnatura, invitandolo ad afferrarla mentre impartiva all’altro ragazzo l’ordine di lasciarlo andare.
«Gli insegneremo cosa significa davvero rubare. Lo renderemo un ladro» sussurrò a poca distanza da lui, con un sorriso balordo stampato sulla sua faccia scottata dal sole.

Kaleb – il nome che gli svelò il ragazzaccio di strada poco tempo dopo - mantenne la parola.
Quel giorno lo aveva tirato fuori dai guai e non si risparmiò di farlo nemmeno in quelli seguenti, cercando di istruirlo alla vita spericolata che invece a lui apparteneva da sempre come meglio poteva. Si scoprì che in realtà Kaleb lo stava osservando da giorni perché quel semplice furfante aveva occhi e orecchie dappertutto. Credeva di avere il villaggio ai suoi piedi e ben presto anche Iliham si convinse di quell’idea visto che non vi era un segreto che riguardasse Bjorg del quale Kaleb non era a conoscenza. Conosceva i suoi vicoli a menadito così come i nomi dei suoi abitanti, le loro mansioni e abitudini, gli orari in cui uscivano di casa come quelli in cui rincasavano e tutto questo anche per merito di uno sparuto gruppo di ladruncoli che avevano più o meno la sua stessa età e che lo seguivano come cani attaccati ad un osso. Erano perlopiù orfani, costretti a quell’esistenza priva di radici perché la vita non aveva saputo offrire loro nient’altro. Gli ricordavano fin troppo i bambini con i quali condivideva la cella da piccolo e fu per questo che si legò ben presto a loro, che trovò conforto e consolazione in quel piccolo gruppo di ladruncoli senza casa, famiglia o valori. Ogni volta in cui si avvicinava sempre più a loro, tuttavia, inconsapevolmente per lo stesso figlio dei barbari, non faceva altro che allontanarsi irrimediabilmente da Ray. Il vecchio lo intuì ben presto. Quello che invece non intuì era il motivo reale che spingeva Iliham a scappare dalla fattoria alle prime luci dell’alba per rientrare al tramonto, visto che il ragazzo continuava a rifilargli la scusa del pastore e delle pecore di cui doveva occuparsi. La mattina si recava al ‘quartier generale’ – un vecchio fienile abbandonato a pochi passi dal villagio – per partecipare ad una breve riunione durante la quale Kaleb esponeva i piani e le occupazioni giornaliere di ciascuno ed il pomeriggio entrava in azione, aiutato dal capo gruppo che ogni singola volta gli svelava tutti i segreti per riuscire a fregare facilmente le persone. Nel gruppo ricopriva il ruolo di esca. Non doveva mentire, perché quello non gli riusciva benissimo, ma essere solo se stesso, come gli suggerì Kaleb. E a quanto pare quel metodo funzionava dal momento che la gente si fidava ciecamente di lui, del povero orfano cresciuto da un uomo di sani principi come Ray. Nessuno aveva dubbi sulla bontà delle sue intenzioni e quindi quella sorta di doppia vita con il tempo divenne sempre più semplice da affrontare. Bastava soffocare il senso di colpa la notte, prima di andare a dormire, per riuscire a conviverci il resto del giorno. O almeno era quello che continuava a ripetersi tutte le volte in cui, sfilando alle spalle delle persone troppo occupate nell’intento di accaparrarsi la merce migliore in vendita al mercato, tagliava il fondo delle loro bisacce con la punta di un coltello per estrarne qualsiasi cosa vi trovasse o quelle in cui sorrideva alle donne e scambiava con loro due chiacchiere mentre un compagno del gruppo si occupava di derubarle. Kaleb non si accontentava mai e le sue mire ben presto si estesero dal mercato alle bettole, dalle bettole alle case, procedendo in quel circolo vizioso ed inarrestabile dal quale Iliham, volente o nolente, non riusciva ad uscir fuori. La sua doppia identità l’aveva talmente risucchiato da privarlo anche del privilegio dei sonni, così, quasi ogni sera, non appena Ray si chiudeva nella sua stanza, Iliham sgattaiolava fuori e si allontanava dalla fattoria per raggiungere il villaggio e trascorrere molte ore in compagnia del suo nuovo gruppo di amici, assaporando i primi piaceri e i vizi della vita di un uomo. Conobbe il gusto dell’alcool e la piacevole adrenalina data dal gioco d’azzardo, sperimentò molte cose ma non si offrì mai il capriccio di una donna.
Con il trascorrere del tempo il figlio dei barbari sviluppò oltre ad un’innegabile forza – dovuta agli allenamenti che non aveva comunque messo da parte e all’aiuto che continuava ad offrire a Ray tutte le sere – anche una notevole prestanza fisica. I tratti del suo volto da morbidi e infantili divennero definiti e mascolini e molte delle ragazze del villaggio se ne accorsero, ma lui non sembrava mai prestarvi troppa attenzione perché nella sua mente e nel suo cuore non vi era altro spazio se non per Kyra. La dolce ragazzina dagli occhi d’argento che di tanto in tanto lo spiava, di nascosto, da un albero nei dintorni della fattoria e che poi attirava la sua attenzione con un sassolino gettato nella sua direzione, per invitarlo a seguirla nel folto. Le ore in sua compagnia correvano come cavalli al galoppo e ogni volta sembravano non bastargli mai. Erano il suo momento di libertà. Quello in cui non era costretto a mentire a nessuno..perché le parlava di tutto e Kyra non lo giudicava mai.
Fu proprio la spensieratezza data da quei momenti ad alimentare in lui l’angoscia.
Sapeva di non essere nel giusto e sapeva che non era quello il genere di vita che Ray avrebbe voluto per lui, ma tutte le volte in cui tentava di farlo presente a Kaleb il ragazzo dagli occhi verdi gli rispondeva che in realtà era nato per intraprendere quel tipo di vita. Che si trattava del suo destino, anche se Iliham, nel profondo del suo cuore, sapeva che quella non era la verità.
E a tradirlo ci pensò il rimorso. Ray era sempre riuscito a leggere dentro l’anima delle persone ma in particolar modo a farlo con la sua. Quello sguardo di ghiaccio era divenuto troppo torbido, troppo inquieto per il vecchio uomo che da anni aveva imparato ad individuarne ogni sfumatura da riuscire a credere anche solo un minuto di più alle sue bugie. Quando poi trovò un piccolo mucchio di gioielli e cianfrusaglie nascosto sotto il letto di Iliham, un giorno, tutti i dubbi si dissiparono nel sapore terribilmente amaro della consapevolezza.
Una notte, apparentemente simile a tutte le altre, il ragazzo uscì come di consueto dalla sua stanza e si mosse con cautela nel buio della casa per raggiungere la porta. Ma non fece nemmeno in tempo ad avvicinarsi all’uscita che un manrovescio andò a colpirgli direttamente la faccia. Durò una frazione di secondo ma il collegamento a Marbh fu inevitabile. Eppure a fronteggiarlo stavolta non vi era la montagna ma il vecchio che l’aveva cresciuto e che in quel momento ricambiò il suo sguardo sbigottito con un’occhiata ostile.
«E’ così che porti a pascolo le pecore? Seguendo il gregge?»
«Non capisco a cos..» Sbam. Un altro schiaffo gli arrossò la guancia.
«E’ così che ripaghi le mie fatiche? Prendendoti gioco di me? Sarò pure vecchio ma non sono ancora rintronato!» la sua voce era colma di rabbia. Non lo era mai stata prima. Aprì il lenzuolo che aveva raggomitolato fra le mani e un tintinnio invadente riempì il silenzio della casa. Il frutto dei suoi numerosi furti ora lo adocchiava da terra, quasi a volergli ricordare quanto fosse grande la dimensione del suo sbaglio. Non riuscì ad aprir bocca e allora Ray lo fece al posto suo.
«Cos’è? Assieme al senno hai perso anche la parola? Oppure…» la voce di Iliham gli impedì di portare a termine quell’accusa.
«L’HO FATTO PER TE! L’ho fatto solo per te..» e mentre i suoi occhi di ghiaccio scappavano in direzione del pavimento quelli di Ray cominciarono a bruciare, gonfi di lacrime ma ancor più di una tangibile mestizia.
«Non c’era bisogno di arrivare a questo punto, dannazione! Avremmo potuto cavarcela anche da soli…»
«Ah si? E come?»
«Con le nostre forze, per esempio, come abbiamo sempre fatto! Sono vecchio e fragile ma sono ancora in grado di offrire aiuto. Perché non me ne hai mai parlato? Perché non ti sei sfogato con me? Perché continui a chiuderti dietro le tue maschere ragazzo mio? Perché continui a farti del male in questo modo? Non è già abbastanza quello che hai dovuto patire?»
«E tu che ne sai di quello che ho dovuto patire? Tu non sai niente di me, niente del mio passato. Sei solo un vecchio burbero e solitario che non è mai riuscito a stringere rapporti con nessuno al di là di un gatto antipatico e di un povero orfanello che, essendo molto più sfortunato di te, è riuscito a rendere più sopportabile il pensiero della tua miserabile vita!» l’aveva ferito. L’aveva ferito seriamente con quelle parole e forse se ne era reso conto troppo tardi.
«Mi..mi disp..» «No! Hai ragione, hai perfettamente ragione. Sono sempre stato un gran codardo. Ho sempre avuto paura di legarmi a qualcuno nel timore di non riuscirlo a tenere stretto a me ma poi sei arrivato tu, tra capo e collo, e mi hai cambiato la vita. Tu mi hai cambiato Iliham. Mi hai reso un uomo migliore e mi dispiace di non essere la persona che avresti sempre voluto al tuo fianco, di non averti rimboccato mai le coperte o offerto il calore di una carezza. Mi dispiace se il destino ti ha concesso questo vecchio burbero anziché un padre o una madre, ma non sempre ci viene offerta la possibilità di scegliere nella vita…alcune volte le cose capitano e non possiamo far altro che accettarle per quello che sono, o almeno provarci.» E a quel punto lo sguardo di ghiaccio del ragazzo divenne acqua. Si strinse con forza a lui senza riuscire a controllare il pianto che derivò a seguire quella stretta. Liberò tante lacrime per tutte le volte in cui, in quei lunghi anni, non l’aveva mai fatto. «Tu non sei un ladro»
«E tu non sei burbero…non tantissimo almeno.»
In quell’abbraccio offrì tutto, perfino l’anima.

___ ☾ ___


An Fear – L’Uomo



Nuovi anni trascorsero nella placidità della quiete. Iliham era tutto fuorché un ragazzino ormai: i capelli non apparivano più corti e scapigliati come un tempo, ma lisci e lunghi fino all’altezza delle spalle, di un biondo tanto chiaro che alla luce del sole splendevano come se avessero voluto risucchiare a sé tutta la luminosità di quei raggi ed offrire alla sua figura la parvenza di un colore definito. La distesa diafana dei muscoli e della carne che li ricopriva veniva interrotta solo dall’intensità del suo sguardo cristallino che in tutti quei cicli di Luna non era mai cambiato, a differenza del resto. Vi erano le stesse ombre a sporcarne la superficie, di tanto in tanto, e ad impedirgli di mostrarsi davvero per quel che era se non dinanzi agli unici occhi che sapevano vedere anche senza guardare, capire anche senza chiedere. Ray, così come il figlio dei barbari, era cresciuto a sua volta. Gli anni ne piegavano spalle e schiena, irrimediabilmente ricurvi in avanti, come se trascinasse di continuo un peso, obbligandolo a sorreggere la sua camminata incerta con l’aiuto di un bastone che lo stesso Iliham aveva realizzato per lui tempo prima. Era lui ad occuparsi di quasi tutto il lavoro nella fucina ormai, quella che aveva deciso di ripristinare una volta abbandonata l’instabilità della vita di strada e del mestiere del ladruncolo, acquistando nuovi strumenti e procurandosi altro materiale per mettere in pratica tutti gli insegnamenti che il vecchio, nel corso di quei lunghi anni, gli aveva concesso senza remore. La fattoria, così, giorno dopo giorno, risorse dalle sue stesse ceneri, anche grazie all’aiuto di Kyra che un pomeriggio, anziché restare dietro l’abbraccio del folto, fu invitata dal giovane uomo ad attraversare l’ingresso della casa e a conoscere Ray di persona, il quale, la sera stessa, al calar del sole, aveva risposto all’occhiata profonda di Iliham rivolta alle spalle della ragazza che si allontanavana con un sorriso sardonico. Anche lei, come tutti gli altri, era cresciuta. Di certo non appariva più come la bambina che era stata allo sguardo di ghiaccio del figlio adottivo dell’artigiano perché, anche se le sensazioni che gli suscitava erano le stesse, ogni cosa veniva intensificata da un desiderio e da un trasporto che Iliham non aveva mai avuto modo di provare prima, alimentati non solo dalle curve femminee di quel corpo pienamente sbocciato nel fulgore dei suoi anni ma anche dalle tenerezze che di tanto in tanto si scambiavano, di nascosto, sotto gli occhi della foresta.
«Iliham?» lo sguardo argentato della ragazza in quel momento era proiettato in direzione di un ammasso biancastro di nuvole. Erano entrambi stesi a terra, uno con i piedi rivolti da un lato e una dall’altro. Solo le loro guance aderivano in quell’incastro di corpi differenti sorretti dalla piacevole frescura dell’erba sottostante.
«Mh?» le fece eco un verso roco e basso.
«Promettimi che durerà per sempre.»
«Cosa?»
«Questo» aveva appena voltato il capo per stampargli un bacio tenue sulle labbra. Le sue custodivano in sé il gusto intenso e dolce di una fragola.
«Sai che non posso farlo...»
«Perché no?»
«Perché niente dura così a lungo, Mo Rùn.» Quel soprannome le faceva venire i brividi ogni singola volta. O forse era la sua voce così calda e involontariamente sensuale a provocarli.
«Vuoi dire che un giorno smetterai di pensarmi e ti innamorerai di un’altra donna?» sembrava davvero terrorizzata all’idea di perderlo.
«Non credo che potrei mai smettere di pensarti..e in ogni caso chi ti ha detto che ti amo?»
«Questi» cominciò ad accarezzargli gli occhi con le dita, sfiorando le sue palpebre sottili. Era vero. La amava. Incondizionatamente. Il suo sguardo era fin troppo limpido da riuscire a negarle quella sicurezza.
«E tu?»
«Io cosa?»
«Mi ami?»
«Sei la mia Luna. Certo che ti amo, ti amo da sempre.»
Silenzio. Gli occhi dell’irlandese per un istante sembrarono assorbire in se tutta la luce del sole. Poi Kyra riprese a parlare.
«Se non puoi promettermi che durerà per sempre, allora promettimi che durerà il più a lungo possibile»
«Te lo prometto» E con due sorrisi pieni stampati sulle labbra tornarono ad immaginare le più svariate identità dietro le forme bislacche delle nubi che li adocchiavano dall’unico fazzoletto di cielo visibile fra le fronde degli alberi. Quel giorno Kyra gli regalò un ciondolo, semplice, grezzo ma estremamente importante. Rappresentava il movimento rotatorio dei pianeti al cui centro vi era una pietra azzurra che simboleggiava la sacralità della Luna. Kyra gli aveva fatto promettere di non privarsene mai perché solo così la Luna avrebbe potuto proteggerlo. Lui mantenne la parola.
I giorni trascorrevano sereni e pacifici mentre la primavera faceva spazio all’incombenza di un’estate che, secondo i racconti dei vecchi del villaggio, quell’anno, l’anno del suo diciottesimo compleanno, sarebbe stata più torrida dei precedenti.
L’aria, tra i vicoli di Bjorg, era a dir poco irrespirabile. Tutti cercavano un po di penombra nei punti più disparati del piccolo paese. Tutti, compreso Iliham che, malgrado non amasse più frequentare così spesso il villaggio, era costretto a raggiungerlo per portare a termine il lavoro di Ray e sbrigare le consegne al posto del vecchio che ormai, preda di acciacchi e sofferenze continue, non si spingeva mai troppo oltre il terreno della fattoria. Fu proprio in un giorno d’estate simile a molti altri che, mentre si trovava sulla via del ritorno, una volta svoltato l’angolo di un vicolo, scorse il profilo di una mendicante seduta a terra e accartocciata su se stessa come un foglio incartapecorito. Un mantello dalla trama leggera e marrone ne ricopriva per intero le fattezze e la mano che spuntava oltre il tessuto, aperta con il palmo rivolto verso il cielo e stesa in avanti, sembrava dello stesso colore di quella manta, solo molto più consumata e attempata.
«Carità, carità per una povera vecchia..» la sua voce era arrochita e debole, contorta da grumi di catarro che le impedivano di respirare regolarmente. Dopo qualche attimo di indugio Iliham decise di avvicinarsi alla mendicante, di estrarre una moneta e di piegarsi di fronte a lei per porgergliela sul palmo ben disteso di quella stessa mano che, l’istante successivo, con velocità inaspettata, si strinse energicamente attorno al suo polso per sbilanciare la figura di quel giovane dalla muscolatura massiccia nella sua direzione. Dove aveva trovato tutta quella forza? Si domandò il nordico, che la fissava con sguardo incredulo e che tentava a tutti i costi di scorgere le linee del suo volto nascoste dall’ombra del cappuccio. Non ci volle molto perché l’altra lo accontentasse...e così la riconobbe immediatamente: si trattava di Shannon, la Bean Feasa della Cerchia - o almeno lo era ai tempi in cui lui fuggì dalla fossa - figlia di Sherazar e custode del Dono. Libera, come lo era lui in quel momento, cominciò a fissarlo con un’intensità non indifferente, di chi vuole scavare a fondo nello sguardo altrui pur di raggiungerne l’anima. Come è possibile che, dopo tutti questi anni, sono riuscito ad intrecciare nuovamente la mia vita a quella della sacerdotessa di Dorchadass, un tempo giovane, forte, bella e ora vecchia, brutta e apparentemente fragile, nello squallore di un vicolo dimenticato da tutti e lontano dalla Fossa? Si domandava tacitamente lui. Si trattava solo di un’incredibile coincidenza? La voce di Shannon riemerse dal nulla, grave e profonda, come lo era quella della madre prima che le Tenebre la portassero via.
«Fuar, Dùn dar Talakheen...sopravvissuto alla Grande Notte. Madre aveva ragione. Sherazar sempre ragione. Impronte di Lupo hanno salvato tua vita, non è così?» Iliham cercò in tutti i modi di divincolarsi da quella presa ma, malgrado la notevole forza sviluppata in tutto quel tempo, Shannon aveva più energia di lui, anche se quella potenza non sembrava giungere direttamente da lei ma da un qualcosa che la circondava e che l’irlandese non riusciva a distinguere. Alla fine si arrese e fece sì col capo, proprio come accadeva quando era ancora un bambino muto e diffidente.
«Mhmmmm» elevò una nenia inquietante al cielo, un verso monotono e stridulo che continuò a ripetere per più di un minuto prima di tornare in se, con il polso di Iliham ancora stretto in una mano.
«Sacrificio necessario. Sangue per sangue. Vita per morte. Questa essere legge del Nostro Dio. Tu sai. Laila sapeva, così tuo destino può compiersi.»
«Di che stai parlando? Cosa c’entra Laila? Cosa le è successo?» Shannon per un attimo parve palesemente stupita di poter udire il suono della sua voce. Poi però cominciò a ridere e a mostrare la sua bocca sdentata, piegata in una smorfia malvagia.
«Tu ancora credi. Ancora speri. Ma sangue chiama altro sangue e solo morte può ripagare vita. Dorchadass bramava tua ma Marbh offerto quella di una meretrice. Sento ancora sue urla...invocava tuo nome come disperata. Dorchadass furioso da Grande Notte. Prossima Luna piena reclamerà tributo. Nuovo sangue macchierà terra. Tuo sangue..»
Sentenziò. E assieme a lei perfino l’inferno diede l’impressione di ridere in quel momento.

Inferno. Ecco come si sentiva in quell’istante. Un blocco di ghiaccio immerso in una vasta distesa di lava ribollente e rossa. La consapevolezza di quella perdita gli causò un male incredibile all’altezza del cuore. Tutto il corpo gli andava a fuoco, ma non di quel genere che avvertiva in presenza di Kyra. Era un calore che bruciava davvero la pelle, che feriva ed infieriva sulla cicatrice vistosa di un’idea che non aveva mai trovato alcuna conferma prima di allora. Laila era morta. E la cosa peggiore era che Iliham nel profondo lo sapeva da sempre ma non aveva mai voluto accettarlo, o potuto, fino a quel momento. Non risparmiò nemmeno una briciola della rabbia e dello sconforto che provava alla foresta che in quegli stessi istanti stava attraversando come una furia, in piena notte e con le vene che pulsavano tanto intensamente da rischiare di esplodere tutte da un momento all’altro. Gealach lo seguiva dall’alto, assisa e immobile sul suo trono luminoso, tonda come un occhio completamente sgranato sul nulla apparente di un cielo blu come il più profondo degli oceani. Karinhold scricchiolava sotto la pesantezza delle sue falcate. Aveva deciso di tagliare per la foresta anziché percorrere il sentiero principale, perché raggiungere la fattoria in quello stato significava far prendere inutilmente uno spavento a Ray..e non era certo che il cuore del vecchio sarebbe riuscito a sopportare anche quel colpo. La vita della donna che si era presa cura del figlio dei barbari le era stata strappata via con brutalità in cambio della sua e lui non aveva potuto far nulla per impedirlo. Quel pensiero lo fece impazzire e gonfiò i suoi occhi di una luce pericolosamente intensa che aveva lo stesso colore della vendetta. Proprio mentre stava tentando di ripescare fra i cassetti della memoria il ricordo del loro ultimo momento assieme lo rivide. Un muso immane e ricoperto di peli chiari sbucava dal centro esatto di un cespuglio. Le due gemme dorate che lo adornavano stavano puntando proprio nella sua direzione. Capì che si trattava del lupo incontrato anni prima in quella stessa foresta fin da subito, ma comprese anche che vi erano alcuni dettagli a renderlo diverso dall’esemplare che, quando era ancora un bambino fragile e selvaggio, decise di risparmiargli la vita. L’animale che in quell’istante stava ricambiando il suo sguardo dubbioso e sorpreso era molto più grande e massiccio di allora, visibilmente possente e altrettanto visibilmente..quieto. Non vi era lo stesso lampo di furia intravisto un tempo in quegli occhi luminosi, tanto che nemmeno l’accenno di un ringhio fuoriuscì dalla sua bocca. Sembrava contemplarlo come chi fa quando rivede una persona dopo tanto tempo e cerca di coglierne gli inevitabili cambiamenti. Da quelle gemme trasparivano una maturità ed una fierezza non indifferenti. Condivisero un lungo minuto, forse anche due, con gli sguardi immersi vicendevolmente l’uno nell’altro. Fu il lupo a spezzare il legame. Cominciò ad offrirgli un fianco e a costeggiare la prima fila di alberi della piccola radura nella quale era finito senza nemmeno rendersene conto prima di voltargli le spalle e dissolversi nell’oscurità. Lo seguì con gli occhi fino all’ultimo istante e nell’attimo in cui si spostò per cercare di individuare la direzione appena intrapresa dal lupo andò a scontrarsi contro un corpo sottile e sinuoso.
«Hey!»
«E tu che ci fai qui?»
«No..che ci fai tu qui! Dovresti essere a casa da un bel pezzo..ma che hai fatto? Sembri sconvolto!»
«Cos’è? Adesso vuoi anche controllarmi?»
«Iliham ma che ti prende? Ti prego parlami, mi stai facendo preoccupare!»
«Lascia perdere..» era furioso, lo si vedeva chiaramente dalla sua espressione.
«No che non lascio perdere! Non ti lascio andare finché non mi dici che diavolo ti prende!»
«Non mi va di parlarne Kyra... e adesso togliti di mezzo!»
«No-oh! Io non mi muovo da qui!» Gli si piazzò davanti cercando di anticipare ogni suo passo e di fermarsi nel punto che lui avrebbe voluto raggiungere, con un’espressione risoluta sul volto di porcellana...quando faceva la cocciuta diventava, se possibile, perfino più bella. Lui sbuffò dalle narici con foga. Tutte le volte in cui lo faceva poteva essere o incredibilmente arrabbiato o incredibilmente bramoso..lei lo sapeva bene e quell’impeto, quella furia animalesca mista al desiderio che ogni singola parte di quel corpo statuario gridava a gran voce, le provocò un brivido. Forse in quel momento provava entrambe le cose. Si trattava di una miscela tanto intensa da farle scoppiare il cuore perché non l’aveva mai visto così imbestialito e allo stesso modo in cui la cocciutaggine rendeva amabile lei, l’ira rendeva immoralmente attraente lui.
«Ti prego..» la sua voce era bassa, soffocata da un qualcosa che riconobbero entrambi. Gli si avvicinò e tentò di aggrapparsi alla sua blusa bianca, arricciandone la stoffa tra i pugni. «...parlami Iliham, dimmi cosa ti è successo. Non tenerti tutto dentro..»
«Ho detto che adesso non ho voglia di parlare...» anche la voce del figlio dei barbari divenne incerta e ancora più roca del solito.
«Allora se non vuoi parlare, raccontamelo in un altro modo» Lo invitò, socchiudendo gli occhi e azzardando un movimento che fu solo il preludio di una notte pregna di passione e rabbia repressa.
Quella notte si unirono per la prima volta. In quella notte Iliham divenne un uomo.

Non appena Kyra si addormentò, nuda e appagata, al suo fianco, lui cadde preda di un sonno agitato. E sognò. Si trattava sempre dello stesso incubo. Quello che da tempo non si era più affacciato sulla soglia del suo inconscio e che lo rendeva il protagonista di una caccia sfrenata durante la quale rivestiva i panni di un lupo. Anche quella volta rincorse qualcuno e anche quella volta avvertì ogni cosa che lo circondava con la strabiliante percezione di un predatore notturno. Ma in quell’occasione accade qualcosa di diverso. Nell’attimo in cui riuscì a dimezzare le distanze dalla schiena della sua vittima anziché perderla di vista la azzannò, infilzandone le spalle con gli artigli e dilaniandone la gola con i denti. Quel corpo cadde a terra con un tonfo secco. Si cibò delle sue carni con feralità brutale e leccò il suo sangue direttamente dall’arteria che lo spingeva fuori prima di lasciarsi distrarre dalla vista. Incrociando lo sguardo della sua preda capì finalmente di chi si trattava. Gli occhi che lo fissavano con impotenza da là sotto erano gli occhi di Marbh..eppure il riflesso che gli stessi gli rimandarono indietro non aveva le sembianze del muso di un lupo, ma quelle del volto di un uomo. Il suo.


...Continua...




Il lavoro di un Mdm:


//ciao, vorrei ordinare un rinoceronte di vetro soffiato, un armadio 4 stagioni, 18 ante, 27 mensole, intagliato con l'Ultima Cena di Da Vinci, poi...un paio di scaldamuscoli al'uncinetto, con motivi floreali, un cavallo di paglia cavo all'interno, alto circa 15 metri (ci devo mettere una dozzina di soldati) e un set di attrezzi da cucina (mestoli, cucchiai, ecc ecc) placcati oro con brillanti nell''impugnatura.... si può entro 1 ora? (Anonimo)





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