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Asterath [Indole Animale] [ESILIATO]

Ultimo Aggiornamento: 29/02/2016 22:22
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Sesso: Femminile
29/02/2016 22:22

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C’era una volta, tanto tempo fa, in un paese lontano lontano... no, in realtà non era poi così tanto tempo fa, nemmeno un paio di anni e nemmeno il paese era molto lontano.. una foresta al limitare di un’ampia distesa di campi coltivati, il confine ultimo del territorio occupato da un piccolo gruppo di agricoltori nella regione est della Cornovaglia... In ogni caso... c’era una volta un uovo.
Ebbene sì, un uovo... la storia comincia così...

E’ l’alba di uno degli ultimi giorni del mese di Nion, al limitare di un campo di miglio coperto da un sottile velo di bruma candida che come una soffice coltre nuvolosa risale direttamente dalla terra nera e grassa tra le quali le prime piantine andavano facendo capolino. La vita rinasce, ancora una volta, in un ciclo perenne. Nel silenzio lattiginoso raccolto tra le volute di nebbia che si avvolgevano in lente spirali attorno al grosso ciliegio in fiore, piantato al limitare del campo,e le coltri bigie il nostro uovo, al sicuro nel nido, nell’ombra tiepida della cavità del tronco sussulta e freme, insieme ai propri fratelli. Non è solo, in quel nido di foglie secche, fango e piume, riparato dall’albero che funge da culla, altre due uova sono accanto a lui sono scosse dagli stessi spasmi leggeri, il guscio sottile, grigiastro, si incrina con uno scricchiolio che ricorda quello del suolo rotto dal gelo invernale, ma non c’è più quel gelo, no, e con la primavera torna anche il miracolo della nascita. Pezzi calcarei cadono come petali di quei fiori vermigli e piccole zampe ancora viscide si distendono, corpi minuscoli dai grandi occhi glauchi e dalla peluria grigiastra incollata ai corpicini si mostrano allo sguardo amorevole della grossa civetta che torce il capo in maniera quasi innaturale per contemplare la propria progenie. Pochi istanti in cui i versi striduli dei nuovi nati riempiono l’aria ed ecco che ai loro becchi ancora teneri è offerto il primo pasto, rigurgitato direttamente dalla genitrice, cibo molle che va a nutrire esserini affamati.
Come può essere piccolo il mondo, quanto il tempo può apparire immenso oppure fuggevole nella ripetitività di gesti quotidiani indispensabili per la sopravvivenza di esseri così piccoli e fragili.
Giorno scivola su giorno, la pioggia cade e il cielo si apre in sprazzi di un azzurro intenso, immenso scaldando il legno, portando con sè il canto più sicuro degli uccelli, l’aroma intenso dellerba e del bosco ormai risvegliatosi dal letargo invernale. Cresce la curiosità in quei piccoli pennuti che inizia solo ora a sembrare tali, cambiando a poco a poco, le piume, assumendo consistenza. Muta l’atteggiamento, anche se il nutrimento resta l’assoluta priorità, e nei voli crepuscolari dalla genitrice, tra un pasto e l’altro, la lotta per la vita si fa sentire da subito, la necessità di dimostrare la propria forza, il desiderio di prevalere. Anche in questo piccolo mondo, anche nella tenerezza di un nido le zuffe si fanno pressanti per ottenere più spazio, per accaparrarsi il boccone migliore, il più consistente. Piccole banalità di ogni giorno, ma a volte non è tutto come sembra, a volte non è così semplice.
Lui è così, lui che in quel riparo cresce, con gli altri, pare non essere del tutto come loro. L’istinto è forte, l’istinto comanda, ma quando il sole si mostra in quell’alba dorata che scintilla e accende la rugiada come miliardi di stelle, quando il vento fa fluttuare nell’aria il polline dei fiori di campo come minuscoli fiocchi di neve qualcosa risuona diverso in quel cuore dai palpiti accellerati e quel batuffolo di piume si stacca dal groviglio dei fratelli per protendere il capo appiattito al di fuori del pertugio.
Emozione, così prende vita un’anima umana nascosta, rannicchiata tra ossa cave e piume ancor giovani: nello stupore estatico del primo tramonto screziato di pioggia su un verde campo di miglio dove le spighe chinano il capo gravide di chicchi color smeraldo sotto le percosse degli scrosci abbondanti. Gli occhi che si nutrono del più tenue barbaglio di sole si fanno liquidi ed il rostro si schiude in un pigolio che è solo l’embrione del grido di caccia che sarà. Meraviglia, e la consapevolezza specificamente umana della bellezza, nata senza parole, senza nome, come mero istinto. Istinto non animale. Piccole differenze come cristalli di vetro portati a formare un mosaico.
Cala l’oscurità, s’allunga il crepuscolo a poco a poco in uno sprofondare del rosso nel blu in un mare di sfumature tra l’indaco di velluto e il rosso purpureo del sangue passando per l’ocra, l’oro ed il verde dei boschi e in quel tepore lieve che riesce a persistere nelle prime notti estive l’affacciarsi di quel pulcino non è più solo tale. Ha stirato le ali, come i propri fratelli, le ha mosse, ha imparato a conoscerle, ha saltellato e sbattuto il proprio corpo contro le pareti del rifugio, sempre più anguste. E’ giunto il momento e il fremito che percorre quelle membra piumate non è solo il vento o il richiamo dell’istinto primordiale è di più, molto di più, ed è forse per questo che lui, rapace notturno, è l’ultimo a lasciar la presa dei propri artigli sulla spessa corteccia dell’albero ormai carico di frutti e a stendere nell’aria quelle braccia piumate richiamando le zampe al corpo e librandosi con grazia incerta seguendo la propria madre, ancora una volta, una delle ultime volte.
Il sangue tinge il calar del sole, il sangue è il colore dell’alba che dilania coi suoi raggi le tenebre, sangue è quello che macchia i giovani artigli del volatile notturno dopo un’intera notte di tentativi ed è ebbrezza, ferocia.
L’istinto controlla, l’istinto impera. Questa è la belva, che non prova pietà, che insegue, ricerca, attacca ancora e ancora sotto l’impulso esclusivo del proprio bisogno fino a che il corpo della vittima non giace inerte e lo stomaco non è saziato dalle sue carni dilaniate.
Si cresce in fretta quando si hanno le piume, quando il tempo ha un altro valore e la stagione calda fa galleggiare una gialla luna in un cielo trapuntato di stelle tanto grande da potercisi perdere. Bisogna imparare in fretta, bisogna capire rapidamente quali sono i limiti netti delle proprie capacità prima che torni a sfiorire il calore dell’estate e il mondo riprenda i colori del grano maturo, dell’ocra e del rosso.
Ci sono fantasie dolci, dove l’abbandono del nido è accompagnato solamente da una malinconia struggente, un accomiatarsi nostalgico gravido di promesse non sussurrate.
Ma la realtà è molto diversa da così, lo è per lui, pennuto senza nome (perchè non c’è bisogno di un nome proprio per riconoscersi, tra uccelli, basta il suono del chiurlare, l’odore, la diversa disposizione delle chiazze bianche sulle piume, basta poco per separare l”io” dal “tu”) che vede il tramonto accendersi di bagliori vermigli mai conosciuti prima, un giallo carico ed un rosso abbagliante che non sono più meravigliose tinte celesti ma un palpitare feroce che corre per le stoppie sparse nel campo, che trasforma la terra coronata dei resti degli steli ormai recisi in un mare di fiamme che si espande, alto e feroce, abbagliante riempiendo l’aria di fumo acre e nero, che giunge a lambire le radici nodose del vecchio ciliegio. Panico, naturale istinto di sopravvivenza che porta a scivolare fuori dal proprio nido e volare via, volare con tutta la forza che si ha spingendo i propri piccoli corpi al massimo per attraversare l’aria sempre più calda, per salire più in alto, oltre il fumo in cui fratelli e genitori non sono che puntini ormai dispersi. Ali che sbattono con foga, occhi socchiusi perchè la caligine non li infiammi rendendo la vista del tutto inutilizzabile. Non esiste altro che la fuga, anche quando ormai ogni muscolo grida la propriaribellione a quell’atto, quando il respiro brucia e pare di non poter farcela più. Non esiste altro, finchè le zampe non trovano un supporto su cui posarsi e la paura che fa fremere il corpo da capo a coda s’attenua lasciando il posto a quel barbaglio di diversità, al pensiero. Ed è in questi momenti che si rimpiange la normalità, quando si avverte, oltre ogni riflesso naturale, anche l’angoscia della perdita, l’ansia della solitudine ma anche la gioia inconcepibile di essere salvi ed al sicuro, di essere pronti a vivere ancora.
Il nido viene costruito a poco a poco, con la goffaggine dell’inesperienza, sotto il tetto di un fienile, al limitare del villaggio. Un posto tiepido, riparato dal vento e pieno di materiale utile con cui intrecciare il proprio giaciglio.
L’inverno è rigido, decisamente freddo e nella campagna coperta da una spessa coltre di neve il cibo scarseggia e anche se il tempo della primavera pare avvicinarsi la distanza con esso sembra incolmabile. L’istinto lo sa, che il calore tornerà a riscaldare le membra intirizzite, ma nulla ancora lo mostra. Le notti di caccia sono lunghe e dure, e tra i morsi della fame e l’indolenzimento è sempre la necessità ad avere la meglio, metro dopo metro, giungendo ogni notte più in là, in cerca di un boccone succulento che, solo se non trovato viene sostituito con qualche scarto umano.
E’ una mattina satura di umidità, pioggia e nevischio hanno sferzato le case e la terra dal pomeriggio precedente, ha cacciato senza successo e raccolto qualche boccone ormai freddo nel retro delle case degli abitanti del villaggio. Ormai si è abituato a loro, li ha spiati spesso attraverso le finestre ed i pertugi. Curioso, ha imparato ad apprezzarli, se non a comprenderli, eppure i suoni che essi emettono a poco a poco, giorno dopo giorno, sono diventati meno alieni, meno sconosciuti. Ha iniziato a capire qualcosa, ben attento a non farsi scorgere. Ma c’è qualcosa di diverso oggi, gli spasmi percuotono le membra di colpo, convulsioni che non causano vero dolore ma riescono a spaventarlo, stordirlo, confonderlo. Il primo pensiero va al cibo, a qualcosa di malsano che può avere inghiottito ma anche qui è questione di attimi, gli scossoni lo portano a cadere dalla trave del tetto e le braccia allargate non sostengono più un corpo deformato che va allungandosi. Un tonfo sordo e lui rimane stordito ed inerte su un cumulo di paglia, di colpo raggelato dall’aria fredda. Trema, annaspa, mentre il terrore cresce a dismisura nel trovarsi in un corpo che non è quello che conosce. Si muove goffamente, pesante, disarticolato e allo sguardo del contadino che sentito il rumore va ad aprire la porta si palesa come un bimbo di 7 anni circa, rannicchiato, magro e completamente nudo su un cumulo di paglia, gli occhioni verdi spalancati così come la bocca, piccola e rossa. Solo un bambino. C’è chi dice che l’essere umano sia cattivo, questo è indubbiamente vero, l’essere umano sa essere crudele, ma in questo caso il vecchio contadino non lo è, e solo un vecchio incanutito dall’età, incolto, superstizioso, un po’ rude ma di buon cuore. E davanti ad un bambino nudo non pensa ad un ladro e non se la prende ma si china su di lui, lo copre con un sacco di quelli per trasportare le sementi e gli pone tutte le domande che chiunque porrebbe se si trovasse un bambino sperduto e palesemente inoffensivo nella propria proprietà. Parlare però, per chi non l’ha mai fatto, non è per nulla un’azione banale, e tutto quello che il vecchio ottiene è quello che viene inteso come il nome della creatura, nulla più che un guazzabuglio di parole udite e smozzicate “As- terra – t – th”. E come in tutte le belle favole, quando il vecchio si allontana, per procurare al cucciolo di uomo degli abiti veri e propri, il mutamento si annulla ed ecco di nuovo la civetta che si riappropria del suo nido. Al suo ritorno, il bimbo non c’è più.
Ci vuole del tempo perchè la consapevolezza di ciò che si è venga assimilata, soprattutto quando di fatto non si sa che cosa si è, si sa di essere, nulla più e quando il bisogno cresce, quando “l’altra” natura si fa sentire come una sorta di basso richiamo non si può allontanarla.
E’ così che Asterath diviene “il fanciullo del pagliaio”, nella superstizione di quegli spiriti semplici ancora legati al culto della madre terra una sorta di membro del piccolo popolo, una presenza non totalmente reale, guardata con un misto di curiosità, perplessità e diffidenza ma accettata, quando decide di manifestarsi.
Trascorrono così le stagioni, con lentezza e tranquillità, e da parte sua, il rapace, oltre a ripulire il granaio dai topi, quando ve ne sono, inizia un processo di lento apprendimento dei modi umani. Non è facile, e ogni gesto viene assimilato con difficoltà nel tentato raffronto con la propria natura animale, sempre e comunque predominante. I contatti veri e propri sono brevi e saltuari, e nonostante le sedute di osservazione ciò che di fatto riesce ad imparare meglio, oltre al movimento, è l’uso di quella voce diversa e sgraziata, che pare essenziale per queste creature per poter fare qualsiasi cosa.
Ancora una volta è un’alba quella che vede l’orrore, quella che lo rivela, nonostante le fiamme non siano occultabili nemmeno dal funereo manto della notte. Un’alba senza sole dove ancora una volta il fumo acre si mescola all’odore del legno e della carne bruciata. Non sono stoppie arse perchè la cenere renda il suolo più fertile, no, sono strazianti ruggiti di morte, seminati per avidità, per odio, per chissà cosa... Non se lo chiede lui, non lo comprende. Accecato ancora una volta dal terrore che scatena il riflesso del fuoco nei suoi occhi enormi apre le ali e vola.
Un nuovo abbandono, un altro nido lasciato ai tizzoni ardenti, un’altra volta a cercar rifugio su, nelle correnti, forzando il corpo fino ai limiti del parossismo e questa volta no, non basta il limitare della foresta, la legge dei territori è ben più spietata nelle zone boschive. Vola, vola ogni notte per fuggire all’orrore di quell’incubo, con pasti frugali e tutto il proprio essere teso a cercare una quiete e una sicurezza, un posto proprio dove poter porre il proprio territorio ed il nido.
E’ lungo una strada sterrata che sente parlare dell’Isola delle Mele, la leggendaria Avalon, dove sovrana regna la pace e la primavera, è per bocca dei mercanti che ne sente indicare l’utopica via e lungo l’evanescente scia di questo mito che prosegue, peregrinando a lungo sino a giungere, estenuato, all’abbraccio delle Nebbie.

Allineamento: Neutrale Puro
Particolarità: Pirofobo


SKILL
RESISTENZA LIV. 1







ASPETTO FORMA UMANA
Altezza: 1, 70 m
Peso: 52 kg
Carnagione: pallida
Capelli: castani
Occhi: verde-dorato


[IMG]http://i46.tinypic.com/23w9ag.jpg[/IMG]

Descrizione: In forma umana si presenta come un ragazzino intorno ai 16 anni con capelli castani, mossi, che giungono abbastanza disordinatamente sino alle spalle, scalati in un arruffato caschetto lungo. La pelle è pallida come la luna, il fisico minuto anche se dotato di una muscolatura secca e scattante. Labbra morbide su tratti sottili e grandi e penetranti occhi di un verde che sfuma nell'oro completano il suo volto fi fanciullo. Il suo aspetto Base:

Caratteristiche di CLASSE CIVETTA: --- Giovane ---


[IMG]http://i50.tinypic.com/dhdclf.jpg[/IMG]


ASPETTO:
Dimensioni: 21 cm
Peso: 150 g.
Occhi: verde-dorato
Piumaggio: bruno sul capo e sul dorso, con piccole chiazze bianche, mentre il petto è candido con piccole macchiettature brune.



BONUS
Metri percorribili in un round: giovane 7, adulto 8, veterano 9 (in volo, mentre a terra ne fa max 4 per round)
Resistenza magica : giovane n/n, adulto n/n, veterano n/n
Vista: Pupille enormi e occhi grandissimi consentono la visione crepuscolare, ovvero necessitano comunque una minima fonte di luce lunare per distinguere, ma non perdono il senso dell’orientamento
Equilibrio: riescono a camminare su superfici anche molto strette o ripide
Sensi sviluppati : udito, vista, olfatto
Bonus taglia : giovane +1, adulto +1, veterano +1
Skill fisiche di Base: resistenza -1, potenza +1, agilità +2




MALUS
Il giorno: teme gli altri predatori che di notte non la intimoriscono
Ambienti chiusi: non resiste a lungo in ambienti chiusi, di solito a meno che ci siano un umano che l’abbia addestrato li evita, seppur scorazzi tra finestre, davanzali e balconi.
Pioggia: la pioggia forte dà fastidio alle ali e rende difficile il volo.


Indole Animale

Karma all'atto del cambio: 0
Karma attuale: 299
Karma da Animorphs: 299
Ultima skill chiesta a karma: da bg



MASTER DESCRITTIVO DEITHWEN


)O(


Che era morta. Le dissero che era morta...
Che nell'alba l'avevano vista galleggiare. Come un cigno.



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